Foto di Roberto Ferrari

Zero. Questa la cifra a disposizione della Protezione civile per far fronte alle emergenze. A dirlo una fonte autorevole, ossia Franco Gabrielli, che dal 2010 è a capo del Dipartimento. La dichiarazione è stata rilasciata al settimanale Vita, nel numero in edicola dal 6 aprile. A nessuno, su altre testate, la cosa sembra aver fatto il minimo effetto. In realtà, il fondo non viene rifinanziato dal 2004, ma, dice Gabrielli, «in periodi di vacche grasse il governo metteva di volta in volta quello di cui c’era bisogno. Ma da quando ci sono io, non ho visto un euro».

Ancora più preoccupante la situazione dei piani d’emergenza per i prossimi mesi, ossia quelli considerati più a rischio per la possibilità di eventi naturali potenzialmente disastrosi: «Sono molto preoccupato -ammette-. I prossimi saranno mesi difficili. Il primo allarme è quello degli incendi. Ci sono moltissime aree del Paese che soffrono di siccità. Sotto il profilo idrogeologico, poi, il territorio non sta migliorando la sua sicurezza. E in più ci dobbiamo aspettare eventi estremi nella tarda primavera e all’inizio del prossimo autunno».

Praticamente tutta l’Italia è a rischio: «Farei prima a dirle [quali zone] non mi preoccupano. Dalla Liguria alla Sicilia, alla Calabria hanno evidenziato che non c’è un Nord più evoluto e un Sud meno attrezzato. Domina la macchia di leopardo. Purtroppo il nostro rimane un territorio molto fragile, ma che non ha fatto tesoro degli insegnamenti del passato e che rimane inadeguato sotto il profilo della protezione civile». Insomma, le parole di Gabrielli lasciano intendere che, se dovessero ripresentarsi condizioni analoghe, avremmo un’altra Giampilieri, un’altra L’Aquila (che a tre anni dal terremoto è ancora un ammasso di macerie), un’altra Liguria.

Come sempre, nel nostro Paese, non è la buona volontà della società civile il problema. Anzi, nonostante il calo dei volontari organizzati (scesi in tre anni da 1,2 milioni a 800mila), nei momenti di crisi non sono le braccia a mancare. Prova ne sia il fatto che, all’indomani del disastro alle Cinque terre dello scorso anno, le persone che si sono messe a disposizione per scavare nel fango erano fin troppe. Si è dovuta fare una selezione, e mandare a casa una parte dei volontari arrivati da fuori. Per due motivi: innanzitutto, il volontario deve aiutare, non essere aiutato, quindi c’è bisogno di persone che sappiano cosa fare e come. Poi perché, dopo sei o sette ore di lavoro ininterrotto, il volontario ha bisogno di un pasto e di un letto. Il che, in situazioni d’emergenza, potrebbe essere un ulteriore elemento di difficile gestione.

In ogni caso, l’impegno degli “angeli del fango” continua a essere determinante, mentre il dipartimento nazionale per la Protezione civile arranca tra mancanza di fondi ed eccessiva burocrazia. Ed è un po’ questa la sintesi dell’Italia. Tanto cuore, tanta voglia di mettersi a disposizione dell’altro nei momenti di crisi, quando ormai il danno è fatto e c’è da salvare il salvabile. Sull’altro piatto della bilancia una cronica incapacità di mettere in piedi un sistema solido ed efficiente di prevenzione delle emergenze. Ancora una volta, come anche nell’ambito della gestione del sistema sangue, la parola d’ordine dovrebbe essere programmazione. Ma a dominare, ancora, ci pare più spesso un altro termine: improvvisazione.