Quando si parla di cultura, l’eterna discussione tra gestione pubblica o privata dei beni artistici dimentica un’altra possibile visione dell’immenso patrimonio di cui dispone l’Italia, quella di bene comune. Non privato quindi, perché non è un singolo cittadino o una singola impresa a poterne vantare un diritto di possesso; ma nemmeno pubblico, nel senso più diffuso del termine, ossia destinato alla gestione da parte dello Stato, inteso come apparato burocratico cui sono delegati oneri e proventi legati alla gestione del bene stesso. La “terza via” (legata etimologicamente alla seconda) è invece più vicina a un’accezione democratica dei beni culturali, in cui la collettività è attrice principale e destinataria del patrimonio.

Un’illuminante intervista a Sante Bagnoli -fondatore della casa editrice Jaca Book, nata 46 anni fa a Milano-, pubblicata su Vita di settembre, introduce alcune interessanti riflessioni in merito, e fa capire quanto sia parziale una discussione che non contempli il concetto di bene comune. Ad esempio, egli ricorda come nel libro “Lo stato aculturale”, pubblicato dalla sua casa editrice, «si spiegava come negli anni tra il 1999 e il 2004, la legislazione sui beni culturali, dopo decenni di dormiveglia, avesse avuto una brusca accelerazione. E come questa accelerazione andasse tutta nella direzione di promuovere il ruolo del privato. Secondo me è stata una scelta disastrosa». E non perché Bagnoli abbia un pregiudizio verso la gestione privata della cultura, ma perché le inefficienze della burocrazia non sono state compensate dalle dinamiche del mercato.

«Innanzitutto -prosegue- abbiamo capito che il privato non è così efficace come si è sempre propagandato. In secondo luogo, sottoponendo i beni culturali ai criteri della “rendita” si è finito con il convogliare tutti i flussi, in primis quelli turistici, verso i soliti pochi luoghi famosi. Invece l’Italia è un grande patrimonio diffuso». Le “logiche mercantili” accentrano e semplificano, creano fenomeni di massa e tendono a omologare l’offerta culturale, che in Italia è invece caratterizzata da una qualità altissima unita a una varietà e diffusione geografica uniche al mondo. Quando si danno opinioni così tranchant e decise, inevitabile che vi sia nella mente di chi le esprime una “ricetta”, o meglio una direzione alternativa a quella intrapresa nelle politiche di gestione: «Il bene comune artistico è un elemento di aggregazione civile e sociale. Sarebbe diventato fattore di difesa dei territori, opportunità di lavoro per i giovani, sia nella conservazione sia nella gestione di quei patrimoni. Sarebbe stato un grande volano in tutti i sensi. Bene comune non è concetto universalistico, perché è un bene della comunità che lo ha sul proprio territorio, che quindi si prende cura della sua salvaguardia e della sua promozione. Ha una modulazione locale e si traduce in partecipazione. Invece che perseguire questo modello noi abbiamo scelto la strada dell’aberrazione, cioè del consegnare tutto al privato».

Grandi compagnie, grandi sponsor, grandi flussi di capitali finiscono sempre per schiacciare le piccole iniziative locali che potrebbero garantire qualità all’utente e un arricchimento diretto per il territorio. Perché non pensare a un ruolo del pubblico in supporto a un privato locale e di qualità? Superare il concetto di “turista da spennare” aiuterebbe a riconsegnare ai rispettivi Paesi di provenienza persone felici di aver speso il giusto prezzo per mangiare un buon pasto e bere una bibita nei pressi delle meraviglie artistiche di casa nostra, per esempio. Supportare iniziative, anche private, di promozione di bellezze artistiche ingiustamente escluse dal giro turistico di massa aiuterebbe a sviluppare in maniera sostenibile aree dimenticate del nostro territorio, e decongestionerebbe quelle più battute.