Il programma Erasmus, che promuove la mobilità degli studenti europei, esiste dal 1987 e negli anni è diventato uno dei più popolari tra quelli promossi dall’UE. L’idea alla base è che trascorrere un periodo di studio all’estero sia utile a promuovere competenze interculturali e in generale una “dimensione europea” che coinvolga i cittadini, oltre che i mercati. Un’idea che oggi può apparire scontata, ma che non lo era per nulla 36 anni fa.
Come spiega su The Conversation la ricercatrice Rosa Rodríguez-Izquierdo, il numero di studenti coinvolti ogni anno dal progetto è cresciuto di due ordini di grandezza nel corso di tre decenni. Se, nel 1987, 3.200 studenti avevano aderito, nel 2017 sono stati 300 mila. Il programma nel suo complesso ha visto più di dodici milioni di partecipanti nel corso della sua vita.
Per il periodo 2014-2020, la Commissione europea ha aumentato del 40 per cento lo stanziamento di bilancio per il Programma Erasmus (oggi Erasmus+) rispetto al periodo precedente, raggiungendo un totale di 14,7 miliardi di euro. Per il 2021-2027 i fondi sono stati ulteriormente aumentati quasi del doppio, arrivando a 26,2 miliardi di euro. Viste le cifre in gioco, conoscere il reale impatto del programma è diventato un argomento di crescente interesse.
Uno studio condotto nell’ambito dello European Data Journalism Network ha provato a misurare quanto il programma riesca a intercettare studenti provenienti da diverse classi sociali e da paesi con profili socio-economici diversificati. «“Fatichiamo a raggiungere determinate categorie, in particolare chi proviene da famiglie economicamente vulnerabili”, spiega l’ungherese Tibor Navracsics, Commissario europeo per l’istruzione, la cultura, i giovani e lo sport dal 2014 al 2019. Tutte le fonti contattate per questo rapporto hanno convenuto che il programma Erasmus, nonostante il suo indubbio successo, ha molta strada da fare per ridurre questo divario economico». Navracsics ha inoltre detto che «chi proviene dall’Europa meridionale e orientale incontra maggiori ostacoli economici alla partecipazione all’Erasmus». Nonostante siano previsti stanziamenti differenziati per promuovere la diversificazione, «Il 61% di chi si laurea nei paesi economicamente più sviluppati ha trascorso l’anno Erasmus nel 2019-20 presso università di paesi di livello economico simile».
È inoltre difficile misurare l’efficacia in termini di impatto dell’esperienza a livello culturale. Le università, i governi, i datori di lavoro e gli stessi studenti tendono a ritenere automaticamente che la mobilità internazionale abbia un impatto positivo, spiega Rodríguez-Izquierdo. Tuttavia, l’esposizione alle differenze culturali durante lo studio all’estero non aumenta automaticamente la comprensione interculturale, a meno che tale processo non sia esplicitamente incoraggiato.
Lo sviluppo di competenze interculturali degli studenti può dipendere, in particolare, dalla loro condizione di partenza, dal genere (le donne traggono maggiori benefici), dall’integrazione nei programmi di mobilità internazionale e dalle opportunità che hanno di mantenere relazioni interculturali.
«Considerando che i partecipanti presentano caratteristiche diverse dai loro coetanei in termini di capacità, campo di studi e background socio-economico – conclude Rodríguez-Izquierdo – e dato che non possiamo dire con certezza se le correlazioni osservate finora siano effettivamente causali, è necessario continuare a promuovere la ricerca legata alla mobilità internazionale per colmare le lacune esistenti nella comprensione del fenomeno».
(Foto di Helena Lopes su Unsplash)
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