Quanto dovrebbe durare una visita medica affinché il paziente si senta soddisfatto? Quanto incide questo sulla percezione dell’idea di “errore medico”? Se lo chiede il filosofo Gilberto Corbellini in un articolo uscito sulla Domenicadel Sole 24 Ore di ieri, che riportiamo.

“Cura” ed “errore” sono due parole utili per capire l’origine dei disallineamenti fra medicina e società. Le riviste mediche abbondano di riflessioni sull’importanza di insegnare ai medici a prendersi cura dei pazienti, cioè di non preferire prescrizioni sbrigative o difensive di lenzuolate di esami clinici e badilate di farmaci. Dalla fine degli anni Novanta si sa che la durata della visita medica è il principale fattore predittivo del soddisfacimento di un paziente. Meglio ancora se quel tempo di cura è caratterizzato da una comunicazione basata su ascolto, simpatia e chiarezza terminologica. Da alcuni mesi sappiamo che nei paesi dove in media le visite mediche durano di più, la salute e la qualità delle prestazioni mediche è migliore. Per esempio, in Svezia i medici stanno in media con un paziente circa 22 minuti (ma le liste di attesa sono anche lunghe), e pochi minuti meno negli Stati Uniti e in diversi paesi occidentali/nordeuropei.

Oltre metà della popolazione del pianeta, però, vive in paesi dove i medici si liberano dei pazienti in circa un minuto o meno, e dove la medicina è arretrata. Tenderei a pensare che se dedicano più tempo ai pazienti, è perché i medici sono scientificamente più preparati e tecnologicamente meglio supportati. In Italia il tempo della visita medica è in media di 9 minuti. Troppo pochi. Stante che uno studio di una ventina di anni fa aveva individuato in 13 minuti la soglia minima per avere una buona probabilità di soddisfare il paziente.

Paradossalmente il mondo dove la medicina è più efficiente ed efficace è anche quello dove se ne temono di più gli effetti collaterali. Cioè gli errori medici. Un recente rapporto dice che gli errori medici sarebbero la terza causa di morte negli Stati Uniti. Ma l’osservatorio epidemiologico di Atlanta (CDC) non ne parla. Il fatto è che “errore medico” non è previsto come causa da scrivere un certificato di morte. E ne viene stimato l’impatto in modi non sempre chiari. Se si prendono a caso una ventina di articoli su riviste mediche si trovano in realtà numeri molto diversi, perché dipende da come si definiscono gli errori. A un livello metodologico gli errori medici sono considerati errori cognitivi o dovuti a malfunzionamenti di un sistema interventistico, cioè per esempio errori umani dovuti a decisioni influenzate da fraintendimenti logico-valutativi di qualche elemento diagnostico o da scarsa lucidità mentale. Ma possono essere sono in gioco, come errori, altri fattori quali negligenza, inesperienza, comportamenti rischiosi dei pazienti (le cadute), etc.

La medicina non è mai stata più efficace e sicura di oggi. Almeno in linea di principio, e cioè se e quando si fonda su conoscenze e procedure sperimentalmente controllate. Eppure, probabilmente, pur trovandoci nel mondo che dispone più agevolmente di queste opportunità, dovremmo riandare alle caricature dei medici tratteggiate da Molière per trovare quasi altrettanta insoddisfazione sociale di fondo verso i medici e i sistemi sanitari. E anche per trovare altrettante superstizioni popolari su cosa faccia bene alla salute, come gli alimenti senza glutine (a parte chi è celiaco ovviamente) o biologici, o come le fesserie omeopatiche e antivacciniste, etc. Certo che se ci si aspetta che una tecnica umana, fondata su conoscenze provvisorie e decisioni che hanno riscontri probabilistici, possa essere perfetta cioè senza qualche effetto collaterale, non è chiaro come va il mondo. E questo andrebbe insegnato ai bambini, essendo gli adulti in genere mentalmente ottusi.

Il fatto interessante è che nel passato erano le persone non istruite che coltivavano le superstizioni, mentre oggi sono comunità di individui istruiti, ma del tutto incapaci di usare il pensiero critico e capire la scienza. Come mai? In buona parte perché siamo condizionati da bias cognitivi e socio-morali, cablati nel cervello, per cui malgrado abitiamo il migliore dei mondi che si sia mai realizzato sul pianeta, una parte sempre troppo numerosa di persone si dedica con singolare imbecillità a segare il ramo di benessere sul quale siamo tutti precariamente seduti.

Questi bias funzionano sia sul lato del paziente sia su quello del medico e si esprimono come dissonanza tra la nostra evoluzione epistemologico e psicologico-emotiva, da una parte, e l’ambiente di vita nel quale le nostre predisposizioni si trovano a manifestarsi ai fini della sopravvivenza e della riproduzione, dall’altra. Non sarebbe una perdita di tempo discutere queste dissonanze e capire come allevare future generazioni che sappiano costruirsi una razionalità più a misura dell’uomo e del mondo.

(Foto di Marcelo Leal su Unsplash)