I diversi conflitti regionali in corso, a partire dall’invasione russa su larga scala dell’Ucraina, hanno dato il via a un periodo di aumento delle spese militari, che hanno raggiunto la cifra record di 2,7 trilioni di dollari all’anno in tutto il mondo. Le sole spese militari dell’Unione Europea sono aumentate di oltre il 30% tra il 2021 e il 2024, raggiungendo la cifra stimata di 326 miliardi di euro. Questo riarmo ha sollevato seri interrogativi sulle sue implicazioni più ampie, in particolare riguardo all’azione globale per il clima.
Un recente rapporto del Conflict and Environment Observatory (CEOBS) approfondisce proprio questo tema, sottolineando come l’aumento della spesa militare globale rischi di compromettere gravemente l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile numero 13: Azione per il clima. Il documento analizza l’impatto su vari obiettivi climatici, tra cui il rafforzamento della resilienza, l’integrazione delle misure climatiche nelle politiche nazionali, la mobilitazione dei finanziamenti per il clima e il potenziamento delle capacità nei paesi vulnerabili.
Gli eserciti sono grandi consumatori di energia e le loro emissioni di gas serra contribuiscono in modo significativo alla crisi climatica. Le stime suggeriscono che l’attività militare potrebbe essere responsabile di circa il 5,5% delle emissioni globali, il che significa che, se le forze armate mondiali formassero un paese, questo sarebbe il quarto maggior emettitore a livello globale. Con l’aumento della spesa militare e il tentativo del resto della società di andare verso la decarbonizzazione, questa percentuale è destinata ad aumentare.
L’aumento della spesa militare comporta un aumento diretto delle emissioni militari. Ciò avviene attraverso l’intensificazione delle attività militari, come l’addestramento, le pattuglie, l’aumento del personale e la produzione ad alta intensità energetica delle attrezzature. Il settore militare è peraltro considerato uno dei più difficili da decarbonizzare, a causa della sua dipendenza dai combustibili fossili e della lunga durata delle sue piattaforme. C’è anche una significativa mancanza di politiche di approvvigionamento “verdi” standardizzate tra le forze armate. Attualmente, i paesi non sono obbligati a riferire in modo trasparente l’intera portata delle loro emissioni militari, il che limita la capacità di valutare con precisione i progressi verso gli obiettivi climatici.
Oltre alle emissioni dirette, l’aumento della spesa militare ha un impatto negativo anche sulle emissioni nazionali di gas serra e sulla resilienza climatica. Spesso, le risorse vengono infatti sottratte ai programmi civili volti a ridurre le emissioni o a rafforzare la capacità di adattamento. Ad esempio, in alcuni stati europei, i budget destinati agli aiuti sono stati ridotti, mentre la spesa militare è aumentata, con un impatto diretto sui paesi in via di sviluppo che dipendono da tali aiuti per la resilienza climatica. Sebbene le forze armate possano offrire assistenza a breve termine in caso di catastrofi, ciò non dovrebbe avvenire a scapito degli investimenti civili a lungo termine per l’adattamento climatico.
L’analisi contenuta nel rapporto sull’aumento della spesa militare tra i membri della NATO (esclusi gli Stati Uniti) è preoccupante. Si stima che un aumento del 2% della spesa militare (rispetto al 2019) potrebbe causare un aumento annuo di emissioni di CO2 equivalente compreso tra 87 e 194 milioni di tonnellate. Il danno collaterale al clima causato dal solo aumento della spesa militare della NATO ammonta a una cifra compresa tra 119 e 264 miliardi di dollari all’anno. Inoltre, l’aumento della spesa militare compromette gli impegni assunti dai paesi sviluppati in materia di finanziamento per il clima, come l’obiettivo di mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno per i paesi in via di sviluppo. Alla COP29, i paesi in via di sviluppo hanno espresso la loro indignazione, sottolineando la disparità tra i budget militari in forte aumento e i finanziamenti limitati per il clima, che mettono a dura prova i processi multilaterali e ritardano l’operatività di fondi come il Green Climate Fund. La presenza di basi militari straniere può anche ostacolare direttamente la capacità delle comunità locali di gestire il cambiamento climatico. L’aumento globale della spesa militare rappresenta quindi un rischio sostanziale per il conseguimento dell’SDG 13 sull’azione per il clima. L’attuale corsa al riarmo è, in definitiva, incompatibile con l’obiettivo generale dell’Accordo di Parigi di limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2 °C, idealmente a 1,5 °C. Gli autori sottolineano l’urgente necessità di una rendicontazione trasparente delle emissioni di gas serra militari e di piani di riduzione ambiziosi per affrontare questa grave minaccia alla sicurezza.
(Foto di Jade Koroliuk su Unsplash)
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