
Recentemente si è parlato di un “tesoretto” emerso dalla presentazione del Def (Documento di economia e finanza) da parte del governo. Si trattava di 1,6 miliardi molto teorici, basati su una stima di crescita del Pil tutta da verificare. Se volessimo accettare questa cifra come risultato conseguito dal governo, bisognerebbe mettere sull’altro piatto della bilancia altre due somme, di segno negativo, ossia i circa 15 miliardi che lo Stato dovrà forse restituire ai pensionati e il rischio costituito dal possesso di titoli derivati, che ammonta a 42 miliardi di euro. La prima è dovuta a una sentenza della Corte costituzionale, che ha giudicato illegittima una clausola della riforma Fornero delle pensioni che imponeva il blocco degli adeguamenti all’inflazione per le pensioni tre volte superiori al minimo (cioè circa 1.500 euro lordi al mese). Un parametro giudicato incostituzionale e che quindi dà diritto a un risarcimento a tutti i pensionati che hanno subito la mancata perequazione per due anni (nel 2012 e 2013). Il governo sta studiando varie strade per uscire da questa situazione limitando gli effetti negativi sul bilancio nel breve periodo. Si parla di una rateizzazione che privilegi i redditi più bassi (cioè più vicini ai 1.500 euro lordi), per poi occuparsi in un secondo tempo delle pensioni più alte.
Altro preoccupante capitolo è costituito dai derivati, un prodotto finanziario del quale i cittadini hanno imparato a diffidare, essendo stato alla base della crisi finanziaria scoppiata nel 2007-2008. In realtà, l’acquisto di questo tipo di titoli non si è mai del tutto fermato, gli Stati hanno continuato a fare contratti per sfruttarli come copertura di varie tipologie di rischio. Ci chiediamo però come mai l’Italia abbia raggiunto cifre record rispetto agli altri Paesi della zona euro, e soprattutto come mai abbia dovuto affrontare costi per 16,95 miliardi di euro nel periodo 2011-2014, mentre altri Paesi (come Francia, Belgio e Irlanda) hanno registrato dei surplus consistenti, come spiega Andrea Baranes su Comune-info.net. Questi si interroga anche su come sia possibile che «quello che Bloomberg definisce una scommessa che non è nemmeno definita nella letteratura finanziaria possa essere equiparata a un’assicurazione; [bisognerebbe] farsi spiegare perché la vendita di un derivato che contiene un altro derivato è considerata una normale operazione di politica economica; com’è possibile che le perdite per la sola Italia siano superiori a quelle di tutta l’area euro; quali siano le coperture per potenziali perdite di oltre 40 miliardi; se 160 miliardi è il totale di derivati o se dobbiamo attenderci nuove sorprese nel prossimo futuro; e le domande sarebbero molte altre». Anche il presidente dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, Giuseppe Pisauro, ha osservato che la quantità di derivati posseduti dall’Italia in rapporto al debito è «un po’ da record», usando forse un dolce eufemismo. Pur nella sua prudenza, Pisauro vede come opportuna una «riflessione sulla capacità di gestione di questi strumenti», e sull’opportunità di dotare il ministero di «tecnostrutture organizzative in grado di valutare i rischi».
È bene osservare che, a differenza del “tesoretto” di cui si vagheggia nel Def, i costi sui derivati sono soldi effettivamente usciti dalle casse dello Stato. «Nel solo 2014 i flussi di interessi causati dalle operazioni in derivati (swap e forward rate agreement) hanno “portato via” allo Stato ben 3,6 miliardi di euro – spiega Morya Longo sul Sole 24 Ore –. Si tratta di soldi effettivamente “spesi”, cioè usciti dalle casse pubbliche per via dei flussi di denaro che lo Stato ha scambiato con le banche d’affari con cui ha stipulato i derivati. Il saldo negativo diventa però di 5,5 miliardi nel 2014 se a questi 3,2 si sommano anche i costi (pari a 1,8 miliardi) che lo Stato ha sopportato per operazioni straordinarie: per esempio per la ristrutturazione di alcuni contratti (soprattutto quelli di duration)». La dichiarazione di Pisauro secondo cui «Nei risultati ottenuti nella gestione convenzionale del debito quella italiana è considerata un’eccellenza a livello internazionale», con risultati «sicuramente positivi» mal si concilia con questi dati, soprattutto se confrontati con altri Paesi: «Prendiamo ad esempio solo i tre anni che vanno dal 2011 al 2013, nei quali in Italia i derivati hanno pesato per 11,5 miliardi effettivi. Nello stesso triennio, invece, in Germania i derivati hanno prodotto un “guadagno” (dunque minor debito) per 556 milioni e in Francia per 3,2 miliardi». Le questioni sono due, o questa gestione non è poi tanto virtuosa, oppure lo è, ed è servita a evitare danni ancora maggiori negli anni in cui è esplosa la crisi. In entrambi i casi, c’è poco da stare sereni.