La faccenda, mal risolta, delle quote rosa nelle liste elettorali, ha prodotto una nuvola di commenti e critiche. C’è chi le trova giuste o sbagliate in assoluto, chi invece ammette che la questione vada discussa e ponderata a seconda dei contesti e delle situazioni, e sulla base di questo approva o condanna l’utilità di assicurare un bilanciamento tra generi nella composizione del Parlamento. Partiamo dalla conclusione: secondo noi sarebbe buona cosa che le quote rosa fossero previste dall’ordinamento, anche solo in forma temporanea. Troppo spesso (soprattutto quando a scrivere sono uomini) ci si blocca sul fatto che lassù, ai posti “di potere”, ci si deve arrivare per meriti, senza spintarelle, e che andare contro il principio puramente meritocratico abbasserebbe la qualità complessiva della composizione degli organi istituzionali. Tutto vero, in linea teorica. La realtà, purtroppo, è che il principio meritocratico non è, attualmente, pienamente applicato.

Per fortuna, aggiungiamo, perché a vedere ciò che ha prodotto la politica negli ultimi decenni sarebbe sconfortante pensare che ciò a cui abbiamo assistito sia stato prodotto da una squadra di “All star” selezionata tra tutti gli italiani che hanno deciso di impegnarsi in politica. È evidente che sono stati altri i meccanismi che hanno determinato l’avvicendarsi di uomini e donne nell’amministrazione della cosa pubblica. Logiche che tutti noi che viviamo in Italia conosciamo bene, perché talvolta non possiamo sottrarci da certe pratiche che, se evitate in favore di un rigoroso rispetto delle regole, ci renderebbero impossibile anche solo ottenere un certificato o pagare una multa (in Italia talvolta è più difficile essere onesti che il contrario). Insomma, la meritocrazia non è realtà, quindi è ipocrita e ridicolo invocarla in maniera strumentale per scongiurare l’introduzione di una norma che andrebbe a sanare una situazione che ha bisogno di correttivi. È vero probabilmente, come dice qualcuno, che alla Camera si sono viste in questi giorni alcune parlamentari marciare sulla vicenda delle quote rosa, e che probabilmente per molte di loro l’introduzione dell’emendamento sulla questione di genere potrebbe essere la certezza di ottenere un secondo mandato alla prossima tornata elettorale. Pazienza. Sopportiamo, ma andiamo avanti.

Il cambiamento non avverrà domani, le cose non miglioreranno subito, ma intanto si innescherà un cambiamento che nel corso degli anni darà dei frutti. Chi si schiera apertamente contro quella che gli statunitensi chiamano affirmative action (il principio politico che mira a ristabilire la parità razziale, etnica, di genere, di orientamento sessuale e sociale) dovrebbe prima mettere il naso fuori dal nostro Paese: si accorgerebbe che la questione è in corso di discussione (e applicazione) da decenni in molti altri Stati (tra cui, appunto, gli Stati Uniti e la Germania). L’Italia è una repubblica dal 1946 (dopo il primo referendum al quale poterono votare anche le donne) eppure, 68 anni dopo, ad avere gli incarichi più alti sono ancora e sempre uomini. Non che non sia migliorata la situazione dal secondo dopoguerra, ma siamo ancora lontani dal superare il fatto che le donne debbano sempre sgomitare il doppio degli uomini per raggiungere i propri obiettivi. Bisogna andare oltre la constatazione che, certo, alcune donne che sono arrivate a sedere in Parlamento o in Consigli regionali ci sono riuscite per logiche clientelari. È giusto togliere un diritto a tutti perché qualcuno che non ne aveva titolo se l’è aggiudicato? Difficile dire sì o no, in senso assoluto. Appunto, va guardata la situazione nel suo complesso e nel suo evolversi nel tempo. Secondo noi è il momento di dare una spinta al cambiamento, la Camera si è espressa in modo diverso, peccato.