Da tempo si cercano modi per eliminare il divario di genere in diversi ambiti della società e del mondo del lavoro. Tra questi il campo della ricerca scientifica. Se anche però negli ultimi anni il numero di pubblicazioni firmate da ricercatrici è cresciuto, siamo ancora ben lontani da una condizione di parità numerica tra uomini e donne. Uno studio da poco pubblicato sulla rivista scientifica PNAS (redatto da quattro autori uomini) ha confermato questo dato. La ricerca ha preso in considerazione circa un milione e mezzo di autori e autrici di paper scientifici, monitorando la loro produzione dal 1955 al 2010, in 83 paesi e 13 discipline. Si tratta di un campione molto ampio (seppure relativo a persone che hanno concluso la propria carriera dieci anni fa), che ha il vantaggio di permettere un confronto tra interi percorsi professionali.

Non basta avere più ricercatrici

Le autrici attive nel mondo accademico erano il 14 per cento nel 1945. Nel 2005 la percentuale era salita al 35,4 per cento. Questo non ha determinato però una diminuzione del divario di produttività tra donne e uomini. Anzi, da questo punto di vista la situazione è peggiorata. La differenza era intorno al 10 per cento negli anni ’50 del Novecento, mentre negli anni 2000 è salita al 34 per cento. Un dato che smentisce l’adagio secondo cui basterebbe aumentare il numero di donne nelle diverse discipline (che vedono comunque livelli di rappresentanza molto diversi) per abbattere il divario di genere. Da qui il riferimento alle “quote rosa” nel titolo. Come abbiamo detto altre volte, quest’ultima è una misura sicuramente utile, ma da sola serve a poco.

Stessi livelli di produttività annuale

L’aspetto che ha attirato l’attenzione dei ricercatori è il confronto tra la produttività annuale di autori e autrici considerati, e la loro produttività complessiva durante la carriera. Se si guarda alla produttività totale nel periodo studiato, si nota infatti un divario del 27,4 per cento a favore degli uomini. Confrontando però la produttività annua la differenza è praticamente nulla. Le donne hanno pubblicato infatti, in media, 1,33 articoli all’anno, mentre gli uomini 1,32. Il risultato è coerente con quanto osservato nei singoli paesi e nelle singole discipline. Ciò che impatta sulla produttività complessiva è piuttosto la durata media della carriera, che infatti è piuttosto diversa. Gli autori uomini hanno infatti una vita professionale media di 11 anni, mentre le donne di 9,3. (I numeri sono bassi perché non è detto che un ricercatore si dedichi alle pubblicazioni durante tutto il suo percorso lavorativo. C’è chi a un certo punto della propria carriera sceglie di dedicarsi all’insegnamento o ad altri impieghi che non prevedono la scrittura di articoli). «L’effetto cumulativo di questa differenza – spiegano i ricercatori – porta a una crescente differenza di genere tra i professori anziani, che perpetua il ciclo di minore conservazione e avanzamento delle facoltà femminili». Quello della rinuncia precoce alla carriera da parte delle donne nella scienza è un fenomeno già studiato, al quale sono state date diverse possibili spiegazioni: differenza nelle responsabilità familiari, assenze, differenza nell’allocazione di risorse, il ruolo della peer review, stereotipi di genere, ranking accademico, specializzazione e clima di lavoro. Più che insistere dunque sulle “quote rosa”, bisognerebbe invece concentrarsi sulla ricerca delle cause di questo fenomeno, e sulla sua attenuazione.

(Foto di Science in HD su Unsplash)