L’attentatore di Strasburgo aveva aderito a una lettura radicale della religione islamica durante una detenzione in carcere per reati di tipo comune. In questi casi qualcuno torna a chiedersi se alla base della radicalizzazione, e quindi dell’atto terroristico, non ci sia innanzitutto un disturbo psichico. È un dubbio legittimo, ma la questione è complessa e attribuire questo tipo di fenomeni esclusivamente allo stato di salute mentale della persona è molto rischioso, oltre che sbagliato.
Tornando al fatto in sé, l’attentato di Strasburgo ci ricorda che il problema del terrorismo di matrice islamista (come sembra configurarsi il fatto in questione) è tutt’altro che risolto. Come rileva il sociologo Alessandro Orsini in un’intervista al sito Formiche, «L’Isis è passato da un terrorismo ricco, basato su cellule ben addestrate e finanziate, come quella del Bataclan, a un terrorismo povero, basato sull’attivazione di lupi solitari o di cellule autonome che non ricevono alcun sostegno da parte dell’organizzazione. Il pericolo è cambiato, ma persiste. […] Il terrorismo ricco, come ho proposto di chiamarlo, è il nemico più pericoloso. Tanti soldi, significa tanti morti».
Il fatto che da tempo non si verifichino attentati con alla base una complessa organizzazione è sicuramente un successo dal punto di vista delle politiche di prevenzione messe in atto dai governi e dalle forze dell’ordine. Tuttavia restano molto difficili da prevedere e arginare atti individuali e senza una precisa pianificazione come quello di Strasburgo.
La narrazione del terrorista come “cellula impazzita” contribuisce a spostare l’attenzione sulla salute mentale di quest’ultimo, alimentando l’idea che alla base di chi si radicalizza ci sia innanzitutto un disturbo, e quindi che la responsabilità della prevenzione debba spostarsi dalle forze dell’ordine alle strutture mediche. Questo ha una sua logica: «Chi, se non una persona con una malattia mentale, farebbe cose così orribili?», si chiedono retoricamente gli autori di uno studio sulle correlazioni tra disturbi mentali e stragi negli Stati Uniti. Che però precisano: «L’idea che l’infermità mentale abbia causato delle stragi, o che un’avanzata cura psichiatrica possa prevenire questi crimini, solleva questioni più complesse di quanto sembri» (corsivi nostri). Giungono a conclusioni simili gli autori di un’altra ricerca che prova a stabilire se ci sono correlazioni tra la radicalizzazione e vari aspetti della persona, tra cui i disturbi psichici. «Questo studio – scrivono – non supporta la visione secondo cui chi esprime vicinanza verso gli attacchi terroristici lo faccia come risultato di una condizione di scarsa salute (fisica e mentale), né c’è un legame diretto con disuguaglianze sociali, un basso livello di educazione o la mancanza di impegno politico». Non molto rassicurante come conclusione, ma che almeno disinnesca la possibile correlazione (è questo uno dei rischi quando la paura prende il sopravvento sulla ragione) che porta a vedere qualsiasi persona con disturbi mentali come un potenziale attentatore.
Come ha spiegato Orsini in una recente puntata di Tutta la città ne parla in onda su Radio3, non ci sono notizie di disturbi psichici tra gli attentatori dell’Isis che hanno compiuto attacchi negli ultimi anni. Quella dell’attentatore come “folle”, spiega, è una visione superata da tempo dalla sociologia, una posizione di comodo che arreca grande danno alla ricerca scientifica perché appiattisce un discorso molto complesso su un unico parametro. Interessante, per il discorso che stiamo affrontando, rileggere un articolo di Pietro Pellegrini, direttore del Dipartimento di salute mentale all’Ausl di Parma, pubblicato su QuotidianoSanità. Ecco un frammento delle sue precisazioni: «A volte l’appartenenza alle organizzazioni è effettiva mentre altre è solo virtuale e solo a posteriori: dopo un atto criminale, avviene l’affiliazione (lo si è visto ad esempio in certi attentati). Siamo di fronte a dinamiche complesse e, in ogni caso, tutte le persone (anche se affette da disturbi mentali) vanno chiamate a rispondere dei propri atti».
(Foto di Mike Labrum su Unsplash)