Il racconto del padre di Raghad, la ragazzina affetta da diabete morta in mare mentre cercava con la famiglia di raggiungere le coste italiane. La testimonianza è stata raccolta dal Corriere della sera.
Eyas Hasoun è un uomo robusto di cinquant’anni, siriano della città di Aleppo, dove aveva un grande negozio di distribuzione di farmaci. Raghad, la quartogenita delle sue sei figlie, era una bimba esile di undici anni, appassionata di disegni e scrittura, malata di una grave forma di diabete che aveva iniziato a minarle il pancreas. Per una notte, la notte dell’agonia, su un barcone nel Mediterraneo, in uno spazio lungo una decina di metri, largo cinque e popolato da 320 immigrati, Raghad ha tenuto con la sua mano destra un dito di Eyas. «Si stava spegnendo… Mormorava “papà, papà” e non aggiungeva nessuna parola. Non ne aveva la forza ma in realtà non ce n’era bisogno: “papà” significa che sta a te occuparti di tutto, risolvere i problemi qualunque essi siano, proteggere la tua bambina sacrificandoti se necessario. Io non l’ho fatto. E questa colpa mi rimarrà addosso per l’intera esistenza. Insieme alla scelta di partire verso la Sicilia. Avevamo preparato due grossi zaini: uno lo tenevo io e il secondo mia moglie Nailà, nel timore che avrebbero potuto dividerci. Gli zaini erano pieni di fiale di insulina, e di macchinari per misurare i valori del diabete e le giuste dosi di medicinale da somministrare. Sulla spiaggia di partenza, vicino ad Alessandria, gli scafisti ci hanno ordinato di raggiungere una piccola barca che distava un centinaio di metri. Inutile opporsi, erano armati di kalashnikov. L’acqua ci arrivava alla testa. Il mio zaino si è impregnato d’acqua. Mia moglie è riuscita a salvarlo, l’ha sollevato sopra il capo, allungando le braccia e soffrendo in silenzio per il dolore. Uno scafista le ha urlato di abbandonarlo. Mia moglie ha risposto che quello zaino era più prezioso della sua stessa anima, l’ha pregato d’avere pietà. Lo scafista gliel’ha strappato di mano, l’ha scaraventato in mare. Ci siamo immersi, lo abbiamo recuperato ma era ormai compromesso. I macchinari non funzionavano, le fiale erano inservibili, era difficile calcolare bene le dosi. Ho provato, ho provato ad aiutare la mia piccola Raghad… Ma senza macchinari, senza insulina, ero impotente. Avevo il buio che mi stava travolgendo».
Nel 2013, in fuga dalla guerra in Siria, la famiglia Hasoun si era trasferita in Egitto. Inizialmente si era ben inserita pur perdendo giorno dopo giorno i risparmi d’una vita. Le bimbe studiavano, praticavano sport; la maggiore aveva cominciato l’università, facoltà di Farmacia. Negli ultimi mesi, nel caos egiziano tra rivoluzione e restaurazione, l’ostilità nei confronti degli stranieri si è aggravata. Dice il signor Hasoun, sempre accompagnato da un pacchetto di sigarette leggere: «Noi siriani siamo stati messi nel mirino. Non potevamo più stare. Avevo paura per le mie figlie. E neppure al Cairo, la città che avevamo scelto per vivere, c’era la possibilità di curare al meglio Raghad. Così avevo pensato di raggiungere la Germania. Volevamo provare con le cellule staminali».
Stanze ampie, soffitti alti, gentilezza, Casa Suraya, gestita dal consorzio della Caritas «Farsi prossimo», ospita decine di profughi siriani. La famiglia Hasoun, sbarcata giovedì a Siracusa è subito salita in treno a Milano. Sono le quattro del pomeriggio. Eyas accetta di incontrarci con la presenza di un interprete; ha gli occhiali, gli occhi chiari, folti capelli bianchi, pantaloni corti, una maglietta, un cellulare sul quale fa scorrere le fotografie delle figlie, in posa da sole oppure abbracciate insieme. A Siracusa si era presentato dagli investigatori per raccontare di Raghad. La sua versione era stata subito accolta. C’era il passaporto della bimba, c’erano le testimonianze di decine di immigrati. Eyas Hasoun non cerca vendette. Non cerca nemmeno giustizia. Si domanda, coprendosi il viso, dove ha sbagliato. «La mia bimba stava sempre peggio. Faticava a muoversi. Eravamo al terzo giorno di viaggio. La costa egiziana era ancora vicina, si vedeva. Quegli avidi sciacalli aspettavano altri immigrati, per prendere più soldi. Ho chiesto se, nel caso fosse giunta una nuova barca, sarei potuto tornare indietro con la famiglia. Hanno detto di sì. Ma un amico ha sentito che gli scafisti via radio ordinavano agli altri in arrivo di caricarci e buttarci. Abbiamo deciso, con l’approvazione di chi era sulla nostra imbarcazione, che viva o morta Raghad sarebbe rimasta con noi fino alla Sicilia. Si è spenta al quinto giorno. L’abbiamo appoggiata su un piccolo pezzo del ponte, era tutta rannicchiata, attorno c’era gente accalcata, stremata, svenuta. Poi… poi il suo corpo si stava… volevo che le altre figlie non avessero di lei un’immagine… c’erano delle persone esperte di religione. Hanno celebrato la cerimonia funebre… abbiamo lavato i suoi vestiti in mare… l’ho adagiata in acqua. Quando mancava una settimana alla partenza, avevo radunato le mie figlie. Avevo mostrato loro da YouTube i video sulle tragedie nel Mediterraneo. Non avevo esitato a mostrare le immagini più crude. Volevo essere sicuro che sapessero i rischi e i pericoli. Ci hanno risposto in coro: “Mamma e papà, si va, uniti”. Solo una di loro, Raghad, che era la guida, la piccola con maggiore coraggio e personalità, ha avuto un’esitazione. Ha detto: “Io sono malata, sono il punto debole. Se volete, lasciatemi pure qui in Egitto e voi proseguite”».