Cercare di capire le dinamiche che regolano la vita della televisione pubblica italiana è sempre cosa ardua. Proviamo però a fare qualche riflessione su un tema che riaccende polemiche e indignazione ogni volta che se ne torna a parlare: il tetto ai dipendenti Rai. Ragionando tra persone che percepiscono uno stipendio neanche lontanamente paragonabile a quello delle personalità di spicco della televisione, certi compensi risultano ingiustificabili.

Secondo i dati riportati dal deputato del Pd Michele Anzaldi, in Rai ci sarebbero 42 persone che sforano il tetto di 240mila euro all’anno previsto per i dipendenti pubblici. Di questi, 30 hanno uno stipendio compreso tra 240mila e 500mila euro l’anno. Sei tra 500mila e un milione di euro. Altrettanti superano il milione di euro. Si tratta effettivamente di cifre notevoli, paragonabili a quelle offerte dai gruppi privati per le prestazioni artistiche. Ed è proprio questo uno dei punti su cui ragionare: la Rai, pur svolgendo attività di servizio pubblico, opera da tempo in un regime di mercato, affiancando programmi d’intrattenimento ad attività informative e culturali.

In un sistema in cui si deve concorrere con soggetti privati (quindi non soggetti a limitazioni per quanto riguarda i compensi offerti), il fatto di non poter offrire più di 240mila euro l’anno a un conduttore sarebbe un grosso limite. La conseguenza sarebbe consegnare alla concorrenza personalità in grado di generare grandi ascolti grazie alla loro popolarità. Il che non sarebbe un problema se la “tv di Stato” fosse effettivamente tale. Ma in realtà la Rai non vive solo grazie ai finanziamenti pubblici, bensì anche in parte cospicua grazie ai ricavi pubblicitari.

Secondo un articolo di Marianna Rizzini sul Foglio, la Rai raccoglie 2,49 miliardi di euro all’anno, di cui il 65 per cento proviene dal canone, il resto dalla pubblicità e da altre attività commerciali. Facendo due conti, poco più di 870 milioni di euro deriverebbero dunque dalla parte commerciale della società, che bastano ampiamente a pagare le prestazioni artistiche di cui si parla in questi giorni. Non bisogna inoltre dimenticare che la Rai è obbligata a utilizzare i soldi del canone per fare attività di servizio pubblico. Trattandosi nella stragrande maggioranza dei casi di conduttori di programmi di intrattenimento, in teoria i proventi pubblici non dovrebbero dunque essere toccati nel regolare tali rapporti di lavoro.

Per fare un confronto con altri Paesi europei, come riporta Rizzini, «la Bbc prende, tra canone e sovvenzioni, oltre 5 miliardi di euro all’anno; la tv francese 3 miliardi e mezzo; la tv tedesca quasi 9 miliardi; la Rai neppure due miliardi». Certo il paragone tra Rai e Bbc non regge in quanto a qualità e autorevolezza, soprattutto in campo informativo. Fatto sta che agli inglesi è richiesto un canone di circa 170 euro l’anno per contribuire al suo finanziamento, dunque non sono solo gli italiani a dover avere a che fare con una delle tasse più odiate (ed evase, almeno fino a prima dell’introduzione del canone nella bolletta elettrica).

Il tema del tetto ai compensi è soprattutto una questione italiana, almeno nei toni. Anche all’estero ci si è posti il problema, e le varie tivù pubbliche si sono date un codice di autoregolamentazione, puntando più alla trasparenza che ai tetti. La Bbc, per esempio, «non ha posto alcun tetto agli stipendi, né dei manager interni né delle strutture artistiche. Però, dopo la tempesta sui compensi elevati scatenatasi ai tempi del direttore generale Mark Thompson, aveva assunto motu proprio l’obbligo di trasparenza dei compensi».

Di sicuro la Rai è un sistema complesso e pieno di nodi. In tanti hanno promesso di apportare la grande riforma che la liberasse dalla presenza ingombrante della politica ai suoi tavoli più importanti. Puntualmente, chi ha provato a farlo ha dovuto alzare i tacchi o ridimensionare le proprie ambizioni. In tutto questo, la questione del tetto agli stipendi dei conduttori non è dunque un tema così importante come lo si vuole fare apparire. Perdere i personaggi in grado di alzare gli ascolti (e quindi gli investimenti pubblicitari, e quindi i ricavi da investire in altre attività) non è proprio la soluzione ai problemi. Si tratta, a nostro avviso, della solita mossa per distrarre da questioni più importanti, e per soffiare sul pericoloso fuoco dell’indignazione generale, che forse prima o poi divamperà inghiottendosi tutti, giusti e iniqui. E come diceva Snoopy rispondendo a Linus: «Ma cosa c’entriamo noi nel mezzo?».

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