Il consumo di suolo in Italia ha rallentato la sua corsa, ormai da qualche anno. Purtroppo il merito non si può ascrivere a un cambiamento di sensibilità, a incentivi economici per la riqualificazione di aree già sfruttate o politiche di preservazione dell’ambiente. Prima di tutto questo è arrivato il mercato. La battuta d’arresto del settore edilizio iniziata nel 2008, e non ancora terminata, ha avuto come conseguenza una sensibile diminuzione dello sfruttamento del territorio. Anche le crisi più profonde hanno sempre un qualche effetto positivo, per quanto indiretto e paradossale.
Per capirci, nei primi anni 2000 il consumo di suolo in Italia aveva toccato gli 8 metri quadrati al secondo, per poi scendere a 6-7 tra il 2008 e il 2013 e a 4 tra il 2013 e il 2015 (dati Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale). Più che esultare per il respiro di sollievo offerto all’ambiente, bisogna chiedersi cosa succederà quando l’economia tornerà ai livelli pre-crisi, e con essa i ritmi del consumo di suolo. Gli ultimi dati su questo fenomeno sono contenuti nell’edizione 2017 del rapporto Ispra intitolato “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici”. In esso si spiega che la velocità di sfruttamento del territorio attuale, seppure di molto rallentata rispetto a qualche anno fa, non è comunque sufficiente a raggiungere gli obiettivi posti dall’Unione europea per garantire la sicurezza ambientale.
«Il 2050 è l’anno per il quale l’Unione Europea ha fissato l’obiettivo del consumo di suolo netto zero – scrive Antonio Scalari su ValigiaBlu –. Immaginando uno scenario “ideale” di diminuzione progressiva e lineare, con “interventi normativi significativi e azioni conseguenti”, l’Ispra stima che entro il 2050 potremo aver consumato in Italia altri 1.635 chilometri quadrati di superficie libera. Se la velocità media di consumo si mantenesse invece sui valori del periodo 2015-2016 avremmo perso altri 3.270 chilometri quadrati (una superficie pari circa a quella della Valle d’Aosta). Il terzo scenario prevede che, in seguito alla ripresa economica (e quindi del settore edilizio), il consumo di suolo ritorni immediatamente ai ritmi dei decenni scorsi, fino a consumare nell’ipotesi peggiore altri 8.326 chilometri quadrati».
«Non è dunque sufficiente – è scritto nel rapporto Ispra – rallentare il consumo (a questo ha già pensato il mercato). È necessario in primo luogo cambiare la logica dell’intervento pubblico, finanziando soltanto interventi che non comportino nuovo consumo di suolo e che contribuiscano invece a recuperare le aree già consumate in stato di degrado, e togliere legittimità a un nuovo consumo di suolo che oramai – in questo contesto – non serve davvero più ad alcuna esigenza, né sociale né economica».
I problemi connessi a un consumo di suolo eccessivo, al di là delle questioni paesaggistiche, sono due: i rischi ambientali e i costi annuali aggiuntivi. Dal primo punto di vista, il rapporto parla di “servizi ecosistemici” danneggiati dalle attività di consumo: «Il suolo – spiega ValigiaBlu – ospita una quota rilevante della biodiversità presente sulla Terra. Costituisce il supporto per lo sviluppo della biomassa vegetale ed è quindi la risorsa primaria per l’agricoltura. Ha un ruolo rilevante nel ciclo dell’acqua, che assorbe e filtra nel suo percorso verso le falde sotterranee (per questa ragione l’impermeabilizzazione diminuisce la capacità del suolo di assorbire e regolare il flusso dell’acqua durante le precipitazioni). Il suolo partecipa ai cicli biogeochimici globali, come il ciclo del carbonio. È un carbon sink, cioè un sistema capace di immagazzinare il carbonio atmosferico, principalmente attraverso la vegetazione. Per questo oggi si ritiene che una corretta gestione dei suoli possa contribuire al contenimento del riscaldamento globale, causato dall’aumento della concentrazione atmosferica di gas serra, soprattutto anidride carbonica».
A livello di costi, l’Ispra ha fatto delle stime – che probabilmente non riescono a considerare tutti i “costi nascosti” del consumo di suolo – che andranno a gravare sul sistema economico e sociale: «A livello nazionale, le stime collocano questi costi tra 625,5 e 907,9 milioni di euro l’anno (tra 30.591 e 44.400 euro per ogni ettaro di suolo consumato)».
Per quanto riguarda ciò che possiamo aspettarci da parte della politica non ci sono, purtroppo, prospettive positive. La legge approvata nel 2016 alla Camera, ancora in attesa di essere discussa in Senato, parte già con dei grossi limiti dal punto di vista delle definizioni. Queste «appaiono limitative, non considerando il consumo di suolo in tutte le sue forme e rappresentando allo stesso tempo un potenziale ostacolo al suo reale contenimento».
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