C’è un limite alle risorse naturali che l’uomo può consumare in anno consentendo che la Terra abbia il tempo di rigenerarle, e l’abbiamo superato poco meno di un mese fa, il 20 agosto. Tale data potrebbe probabilmente essere spostata molto più avanti se si riuscisse a mettere un freno agli sprechi di cibo che avvengono ogni giorno. Secondo il rapporto Fao “Food Wastage Footprint: Impacts on Natural Resources”, «La perdita della strabiliante quantità di 1,3 miliardi di tonnellate di cibo l’anno non solo causa gravi perdite economiche, ma grava anche in modo insostenibile sulle risorse naturali dalle quali gli esseri umani dipendono per nutrirsi». Lo studio (finanziato dal governo tedesco, il primo di questo genere) sottolinea inoltre che «Ogni anno, il cibo che viene prodotto, ma non consumato, sperpera un volume di acqua pari al flusso annuo di un fiume come il Volga; utilizza 1,4 miliardi di ettari di terreno, quasi il 30 per cento della superficie agricola mondiale, ed è responsabile della produzione di 3,3 miliardi di tonnellate di gas serra. Oltre a questo impatto ambientale, le conseguenze economiche dirette di questi sprechi (esclusi pesci e frutti di mare) si aggirano secondo il rapporto intorno ai 750 miliardi di dollari l’anno».
Il fatto che non siano considerati pesci e crostacei fa sospettare che le cifre potrebbero essere anche più alte, ma intanto atteniamoci ai dati rilevati. «A gravare sulle spese -scrive Repubblica è in larga parte lo spreco di verdure (23 per cento), seguito da carne (21 per cento), frutta (19 per cento) e cereali (18 per cento). La dissipazione della carne pesa soprattutto a causa dei suoi costi di produzione: ne viene buttato il 4 per cento, ma l’incidenza economica è cinque volte maggiore. Mentre il discorso è inverso per i cereali: la quantità “buttata” è maggiore del valore economico. C’è invece un certo equilibrio per frutta e verdura. Il volume globale dello spreco è stimato in 1,6 miliardi di tonnellate di “prodotti primari” e in 1,3 miliardi di tonnellate di cibo commestibile». La maggior parte degli sprechi avviene nelle fasi di lavorazione, che pesano per il 54 per cento, mentre il 46 per cento avviene “a valle”, dal trasporto al consumatore. C’è da dire che più tardi si verifica lo spreco e più pesanti sono le conseguenze per l’ambiente, perché maggiori saranno state le risorse impiegate per produrlo, trasportarlo, conservarlo, cucinarlo.
Le cause di questo fenomeno sono complesse, e riguardano da un lato il comportamento errato dei consumatori, dall’altro le inefficienze nella catena di produzione, e non ultime le esigenze estetiche dei prodotti che dovranno finire al banco. È facile notare come sullo scaffale del negozio o del supermercato ci sia frutta e verdura che sembra prodotta con lo stampo, ma per arrivare a tale perfezione una grande quantità di merce torna al produttore, e finisce quindi al macero. La vera notizia rilevata da questo studio, quindi, è che la fame nel mondo non è data da una carenza di risorse, ma da una loro squilibrata allocazione. Forse non è una gran novità, molti ci erano già arrivati, ma ora uno studio l’ha messo nero su bianco. Suonano scontate, ma necessarie, le parole del direttore generale della Fao, Josè Graziano da Silva, quando dice che «Non possiamo permettere che un terzo di tutto il cibo che produciamo finisca nei rifiuti o vada perso a causa di pratiche inadeguate, quando 870 milioni di persone soffrono la fame ogni giorno». Ecco perché chiediamo a tutti i governi e agli organismi internazionali uno sforzo maggiore per introdurre (e imporre) buone pratiche di produzione e consumo del cibo. Forse è un argomento che non porta molti voti, ma può salvare vite.