Monitorare e comunicare il rischio ambientale sono compiti fondamentali per elaborare piani di prevenzione e intervento sul territorio. All’inizio di marzo l’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) ha pubblicato il rapporto 2015 sul Dissesto idrogeologico in Italia: pericolosità e indicatori di rischio. L’Italia deve scontare da un lato le condizioni morfologiche del territorio, che è al 75 per cento montano e collinare. Questo si traduce in un’area di 22.176 chilometri quadrati, pari al 7,3 per cento del territorio nazionale, ad alto rischio di frane.

Nel 2015 si sono registrate oltre 200 frane, di cui circa un centinaio ha causato danni alle reti stradale e ferroviaria. Per prevedere tali eventi esiste uno strumento, il Piano di assetto idrogeologico (Pai), in cui vengono registrate le informazioni sulle frane che si sono verificate e che consente di prevedere le possibili evoluzioni dei fenomeni. Dunque, si legge sul rapporto, i Pai «costituiscono uno strumento fondamentale per una corretta pianificazione territoriale attraverso l’applicazione di vincoli e regolamentazioni d’uso del territorio. Tuttavia, sulla base della ricognizione effettuata dall’Ispra sullo stato di attuazione della pianificazione della pericolosità da frana, più del 50 per cento dei Pai non è stato aggiornato sull’intero bacino negli ultimi cinque anni». Dunque le valutazioni che si possono fare sono basate su dati parziali e spesso non aggiornati, il che depotenzia notevolmente la possibilità di prevenire questo tipo di eventi naturali.

Le alluvioni sono un altro tema di grande criticità nel quadro dei fattori di rischio ambientale. Esse sono imprevedibili, sottolinea l’Ispra, ma la raccolta dei dati storici ha evidenziato un certo tasso di ripetitività degli eventi su alcune porzioni di territorio. In merito agli effetti delle alluvioni, si legge, il fatto che una pioggia possa degenerare in alluvione non è un fatto meramente “naturale”: «Alcune attività antropiche, quali la crescita degli insediamenti umani, l’incremento delle attività economiche, la riduzione della naturale capacità di laminazione del suolo per la progressiva impermeabilizzazione delle superfici e la sottrazione di aree di naturale espansione delle piene, sommano i loro effetti a quelli dei cambiamenti climatici, contribuendo ad aumentare la probabilità di accadimento delle alluvioni e ad aggravarne le conseguenze».

Sulla limitazione del consumo di suolo, l’Italia è rimasta praticamente senza una legge fino al 1989 (nonostante negli anni ’50 e ’60 si fossero verificate alcune tragiche alluvioni, quali quella nel Polesine e a Firenze). «Dal secondo dopoguerra, l’intensa urbanizzazione, avvenuta senza tenere in debito conto le aree del Paese in cui avrebbero potuto manifestarsi eventi idrogeologici ed idraulici pericolosi e potenzialmente dannosi, ha portato a un considerevole aumento degli elementi esposti e vulnerabili e quindi del rischio. D’altro canto l’abbandono dei territori montani ne ha determinato una mancata manutenzione e ancor più, in generale, un venir meno del ruolo attivo delle popolazioni a presidio tanto del territorio quanto dell’ambiente naturale. A ciò si aggiungono anche gli effetti dell’evoluzione climatica con un aumento della frequenza di eventi pluviometrici estremi, ben poco prevedibili, e conseguentemente di fenomeni altamente pericolosi e potenzialmente distruttivi quali piene improvvise, anche in area urbana, o colate rapide di fango e detrito». Oggi la normativa sul tema si è fatta molto complessa e ha subito spesso modifiche e ampliamenti, che hanno portato talvolta ad alcune contraddizioni, di cui una denunciata nel rapporto: «Il Pgra (Piano di gestione del rischio di alluvioni) è considerato strumento di revisione e aggiornamento del Pai, che consente di rispondere agli adempimenti della Fd (Direttiva alluvioni o Floods Directive) ma i cui contenuti devono essere integrati nei Pai affinché a essi si possa applicare la normativa prevista dai Pai stessi e le misure siano rese immediatamente cogenti».

L’inefficacia degli interventi della politica nella gestione del rischio ambientale, negli anni scorsi, è riconducibile alla logica emergenziale che li ha guidati. Da ottobre del 2014 è attivo il programma governativo “Italia sicura”, che si prefigge di coordinare misure d’intervento massicce su tutto il territorio, con finanziamenti per circa 800 milioni di euro. Speriamo sia la direzione giusta, perché ogni euro speso (bene) in questo senso può risparmiarne molti altri che andrebbero investiti per ricostruire, ma soprattutto può salvare vite umane.

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