Che ruolo hanno avuto i media nella creazione dell’attuale clima politico-culturale, in cui (in Italia più che in altri paesi) prevalgono il populismo e le opinioni altamente polarizzate? Hanno contribuito a “spiegare il mondo” o hanno giocato di più a cavalcare (e/o fomentare) l’onda emotiva a favore o contro i diversi attori dello scenario? Un saggio di Fabio Martini comparso su Rivista di Politica prova a dare qualche risposta. Ne riportiamo un estratto.
I governanti di ogni tendenza, prima o poi, finiscono per indicare i media come i propri acerrimi nemici, ma nella realtà italiana degli ultimi anni giornali e televisioni sono stati semmai tra i principali artefici dell’ascesa dei “supereroi”, i profeti del “nuovo” che via via hanno conquistato la scena: da Berlusconi a Salvini, passando per Renzi e Di Maio. I media, in decenni di racconto personalizzato e drammatizzato, hanno trasmesso una rappresentazione della politica nella quale esistono soltanto buoni e cattivi, vincitori e perdenti. E con il loro linguaggio semplificato, sincopato e aggressivo essi hanno alimentato uno standard comunicativo al quale i leader politici si sono allineati. Con un effetto paradossale: i personaggi emersi negli ultimi anni hanno fatto propria l’indignazione e il linguaggio dei media e al tempo stesso ne sono un prodotto. In una sorta di simbiosi. Se la forma del comunicare politico oramai è importante almeno quanto il contenuto, la “colpa” non è dei media, ma una loro responsabilità oggettiva è agli atti.
Ripercorrendo gli ultimi trent’anni di politica italiana si scoprirà che l’escalation dei principali leader è stata preceduta e preparata da una formidabile semina mediatica. Sul declinare della Prima Repubblica, Michele Santoro fa da battistrada e apre una lunga striscia di imitatori: talk show quasi tutti privi di contraddittori significativi, ma soprattutto impregnati dallo stesso mood. Indignato e vittimista. Sempre all’inizio degli anni Novanta, l’«Indipendente» di Vittorio Feltri, col suo linguaggio pop, diventa l’apripista di un giornalismo gridato, al quale alla lunga si sono allineati anche i politici. E quanto ai principali giornali, anni e anni di retroscena sanamente ficcanaso ma talora apocrifi, hanno contribuito a sdoganare la categoria del verosimile: una terra di nessuno nella quale i leader si sono trovati a proprio agio.
Una complicità “involontaria”, quella del populismo mediatico, tipica degli ultimi decenni, ma che si intreccia con una complicità di più antica data. Il giornalismo italiano ha scritto grandi pagine in tutte le stagioni – dal pre-fascismo al dopo-Tangentopoli – ma senza mai sentire come propria una vocazione al quarto potere e interpretando semmai una tendenza al fiancheggiamento di tutti i poteri. Poteri non necessariamente di governo. Anche di opposizione. Con un consociativismo diffuso in tutti i rami dell’informazione: i giornalisti giudiziari sono indulgenti con i magistrati, i critici cinematografici con i grandi registi e lo stesso vale per il giornalismo sportivo, culturale, sindacale, per non parlare di quello economico. Con una tentazione comune: partecipare al gioco, consigliare il potente. Condizionarlo. Dettargli la linea.