Il rapporto della Commissione europea sulle fake news rimarca il concetto di “problema per la democrazia”, specificando però che non sono ancora stati fatti studi approfonditi in merito. Questa e altre contraddizioni sono spiegate da Fabio Chiusi su ValigiaBlu, in un articolo che riportiamo.
Il miglior modo per restituire la sensazione che lascia la lettura del rapporto finale del gruppo di esperti della Commissione Europea sulle “fake news” è leggerne il titolo e la premessa. Il primo – “Final Report of the High Level Expert Group on Fake News and Online Disinformation” – contiene l’ormai screditata espressione, che già lo Shorenstein Center di Harvard chiedeva di eliminare dal dibattito (almeno) accademico lo scorso ottobre. La seconda, invece, recita così: “In questo rapporto, l’HLEG” – cioè il gruppo di 39 esperti selezionato dalla Commissione, per l’Italia Gianni Riotta de La Stampa, Federico Fubini del Corriere della Sera, Gina Nieri di Mediaset e Oreste Pollicino, professore ordinario di Diritto Costituzionale all’Università Bocconi di Milano – “evita deliberatamente l’espressione ‘fake news’”.
Se siete confusi, aspettate di chiedervi per quale motivo il profilo Twitter della Commissione divulghi, insieme al suo lancio, un sondaggio secondo il quale l’83 per cento dei cittadini europei riterrebbe le “fake news” – ehm – “un problema per la democrazia”. Leggendo le ragioni per cui gli stessi esperti da essa interpellati lo rigettino, viene da chiedersi quale “problema”, esattamente. Se l’espressione è “inadeguata” a cogliere la complessità della fattispecie “disinformazione online” – non tutta è completamente falsa, molta mischia vero e falso, e non tutta riguarda “notizie” – e se, soprattutto, può risultare addirittura “fuorviante” – “un’arma con cui i potenti possono interferire nella circolazione di informazione”, si legge, “e attaccare o danneggiare media indipendenti” – di cosa stiamo parlando?
83% of Europeans perceive a term that the EU report (on “fake news”) refutes and asks to outright abandon because vague and ultimately dangerous to be a problem for democracy.
No one knows which one exactly, I deduce. https://t.co/7PiBkzDghU
— Fabio Chiusi (@fabiochiusi) March 12, 2018
Difficile dirlo. Il rapporto, da un lato, si premura di spiegare cosa intenda per “disinformazione online”, sostenendo di occuparsi di “informazioni false, inaccurate o fuorvianti costruite, presentate e promosse per causare intenzionalmente danno pubblico a fini di lucro”. Dall’altro, tuttavia, contiene una stupefacente ammissione, che non rivela fino a pagina 31 (su 44): “è di primaria importanza”, si legge, “assicurare una aggiornata comprensione, basata su prove, delle dimensioni, della portata, delle tecnologie, degli strumenti e della natura dei problemi in esame”. A dire: finora, non l’abbiamo.
E allora perché non è già il rapporto a occuparsene, verrebbe da chiedere, soprattutto considerando che tralascia quasi interamente di riportare i risultati prodotti dalla ricerca finora in materia. Insomma, sappiamo che l’Europa è in stato di allerta, che grandi esperti sono coinvolti, e dalle pagine prodotte in queste ore – e che ora andremo a descrivere – che c’è un’intera road map a base di nuovi istituti di ricerca, autorità indipendenti, esperti, codici di condotta, raccomandazioni, programmi educativi e modalità di implementazione di tutto questo nuovo armamentario istituzionale. Ma non ce ne è detta la ragione.
Se la disinformazione online è un problema che l’Unione europea scopre oggi, confinandolo entro il perimetro della sola Rete, è quello il problema. Se invece ci sono profili di novità e urgenza nella problematica, qui non ne sono riportate le evidenze – ammesso ci siano. Ciò che abbiamo è una risposta che ha tutta l’aria di essere emergenziale senza che ce ne venga spiegata la natura – per propria stessa ammissione, ignota – né se e perché lo sia a un’emergenza vera e propria.
Ma il rapporto che dice, una volta problematizzate le sue premesse? Di buono, c’è che non dice poi molto che non sia di buonsenso (il che solleva di nuovo la domanda sull’utilità del lavoro svolto dal HLEG). No, come detto, all’uso dell’espressione “fake news”. Ma anche: no a ogni confusione tra disinformazione e contenuti illeciti, per esempio per diffamazione, di cui già si occupano le norme vigenti. No a ogni forma di censura nel nome della lotta alla disinformazione, perché in democrazia il falso si combatte con l’educazione a distinguere vero e falso, col giornalismo e con una sana e robusta opinione pubblica.
E no a leggi sul vero e il falso. Almeno, per il momento. Leggendo con attenzione, infatti, si coglie che l’obiettivo del rapporto è incentivare il più possibile un approccio “multistakeholder” – che metta cioè al tavolo istituzioni, giornalisti, piattaforme digitali, esperti, ecc. – per costruire buone pratiche e principi condivisi liberamente, nell’ottica dell’autoregolamentazione. Ma, per verificarne la reale implementazione, si riserva alla Commissione il potere di “considerare, in un secondo momento, appropriate risposte di (co)regolamentazione”. Saranno troppo “nette” o “rischiose” attualmente, e certo bisogna evitare che lo Stato o multinazionali private diventino arbitri della verità, ma la mano – questo si legge tra le righe – potrebbe rapidamente diventare più pesante nel caso le belle parole restassero, appunto, belle parole.
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(Photo by Mike Ackerman on Unsplash)