«La cultura frutta al Paese il 5,4 per cento della ricchezza prodotta, equivalente a quasi 75,5 miliardi di euro, e dà lavoro a quasi un milione e quattrocentomila persone, ovvero al 5,7 per cento del totale degli occupati del Paese». Ancora lei, sempre lei, questa scomoda signora che non vuole proprio saperne di stare zitta e farsi da parte per lasciare spazio ad altre signorotte ben più sulla cresta dell’onda. Stiamo parlando di Madame Cultura, che immaginiamo di un’eleganza semplice, di quelle che non hanno bisogno di essere esibite, perché sta nei gesti, nel tono della voce. Ma quando la sostanza c’è, è giusto parlarne. Ed è ciò che fa il rapporto “Io sono cultura – l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi” (che si può scaricare qui), elaborato da Fondazione Symbola e Unioncamere con la collaborazione e il sostegno dell’Assessorato alla cultura della Regione Marche, presentato martedì a Roma.
L’assunto iniziale è solo la punta dell’iceberg, perché allargando lo sguardo dai soggetti che fanno cultura in senso stretto (industrie culturali, industrie creative, patrimonio storico-artistico e architettonico, performing arts e arti visive) agli altri settori che si nutrono di cultura per creare opportunità di lavoro (ad esempio il turismo legato alle città d’arte), allora il valore aggiunto prodotto dal settore vola al 15,3 per cento del pil. Questo sistema virtuoso si innesca perché la cultura ha un moltiplicatore pari a 1,7. Vale a dire che «per ogni euro di valore aggiunto prodotto da una delle attività di questo segmento, se ne attivano, mediamente, sul resto dell’economia altri 1,7 -spiega sul suo blog Ermete Realacci, presidente di Symbola-. In termini monetari, ciò equivale a dire che gli 80,8 miliardi di euro prodotti nel 2012 dall’intero sistema produttivo culturale, riescono ad attivarne quasi 133 miliardi, arrivando così a costituire una filiera culturale intesa in senso lato di circa 214 miliardi di euro». Ossia lo stesso valore complessivamente generato dalla metallurgia, dalla “meccatronica”, dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e dal bancario assicurativo.
I dati si riferiscono al 2012, quindi un periodo in cui i tagli imposti dalle politiche di questi anni avevano già pesantemente abbattuto le possibilità di crescita del settore, che quindi dimostra in maniera ancora più evidente il proprio ruolo tutt’altro che marginale. «Nel mondo c’è una domanda di qualità che l’Italia sa intercettare -continua Realacci-. Non a caso quando l’Italia fa l’Italia e scommette su innovazione, ricerca e green economy e le incrocia con bellezza, qualità, legame con i territori, con la forza del made in Italy, è un Paese forte capace di competere sui mercati internazionali. Proprio l’intreccio tra cultura e bellezza è una delle radici più profonde e feconde della nostra identità e della competitività della nostra economia».
I numeri contenuti nel Rapporto (il primo in assoluto a provare a quantificare il peso della cultura in Italia in termini monetari) confermano questo assunto. In controtendenza rispetto a tutti gli altri settori dell’economia, tra il 2011 e il 2012 le imprese del sistema produttivo culturale sono aumentate del 3,3 per cento (+14.590 unità), circa 3 punti percentuali in più del totale dell’economia. Anche il livello occupazionale, incredibilmente, è cresciuto: 1 milione e 397mila addetti nel 2012, il 5,7 per cento degli occupati del Paese (+0,5 per cento, a fronte di una flessione dello 0,3 per cento riscontrata per l’intera economia). La cultura è anche terreno fertile per l’imprenditorialità al femminile: sono 75.937 le imprese guidate da donne, il 23 per cento dell’intero settore culturale (con picchi del 29 per cento in Abruzzo). I settori in cui il loro ruolo si fa più sentire è l’artigianato (35 per cento) e l’editoria (20 per cento). Per concludere, «Per affrontare la crisi e guardare al futuro l’Italia deve fare l’Italia. La cultura è l’infrastruttura immateriale fondamentale di questa sfida».