Come chiudere questa lunga digressione sul concetto di rappresentatività e di leadership? Innanzitutto elencando di seguito le puntate precedenti, per chi si fosse perso qualcosa o comunque per mettere insieme i pezzi raccolti fin qui e rifletterci sopra:
1. «Cosa mi rappresenta?». Riflessioni su organizzazioni complesse e ruoli di coordinamento
2. La lunga staffetta: una gara basata sulla fiducia
3. Rappresentanti: a misura d’uomo e oltre
4. Leadership: il fascino (poco) discreto del carisma
5. Identikit del leader paranoico
Nel corso dei precedenti interventi abbiamo messo in evidenza aspetti positivi e negativi (forse soprattutto questi ultimi) che si verificano spesso nella vita di molte formazioni sociali, negli ambiti più diversi. Certe dinamiche su cui ci siamo concentrati riguardano l’emergere, in seno a tali organizzazioni, di una figura rappresentativa che a un certo punto devia dalle prerogative che definiscono il suo ruolo, per imporre una propria linea. Un’impostazione che mostra, al contempo, di non rispettare la storia dell’istituzione rappresentata, e di avere un’idea di futuro fortemente legata alla propria personalità, con la conseguenza di scagliarsi in critiche feroci contro ogni proposta “nuova”. Quest’ultima, abbiamo sottolineato, non è rifiutata a causa di perplessità che entrino nel merito, ma solo in quanto alternativa alla propria visione, e quindi sbagliata a prescindere.
Ciò che fin qui è mancato in questo nostro percorso di riflessione è l’antidoto, o gli anticorpi che le organizzazioni possiedono (e devono essere in grado di sfruttare) per bloccare questa dinamica di chiusura, di futuro a senso unico. Ce ne sono tanti, ma forse il più importante, almeno nelle formazioni sufficientemente complesse e con una storia alle spalle, è la collegialità. L’unico strumento per opporsi alla deriva della “continuità a tutti i costi” è un modo di lavorare diverso, fatto di collaborazione, di teste che si mettono assieme per ragionare, per redigere un programma e proporlo agli altri. Con l’idea che una “testa pensante” in più sia una risorsa e non un problema, e che quindi in tre si ragiona meglio che in due, in quattro meglio che in tre, e così via. In questo caso, la scelta del leader incaricato di portare avanti il programma elaborato non sarà una lotta all’ultimo sangue, tutta imperniata su personalità in contrapposizione. La fase di confronto (anche acceso, ma sempre sereno) sarà in questo caso precedente al momento dell’elezione, perché oggetto dello sforzo collettivo sarà la definizione dei contenuti del programma. La scelta del leader sarà così un momento quasi più formale che sostanziale (seppure importante), perché i giochi si sono fatti (assieme, discutendo) prima.
Sarà sufficiente individuare un “capo cordata” che abbia fatto propria questa impostazione mentale. Si tratta comunque di un ruolo delicato, per il quale è necessario individuare una persona che abbia determinate caratteristiche: rispetto delle idee altrui, promozione della pluralità, capacità di sintesi, propensione all’inclusione, capacità di creare consenso intorno a proposte condivise. In altre parole una persona che sia in grado di lavorare insieme agli altri.
E gli ex? Il massimo sarebbe che si facessero da parte, ma restando a disposizione. A consuntivo, la storia giudicherà il loro contributo alle sorti dell’istituzione che hanno rappresentato, e sarà chi viene dopo a chiedere all’ex, eventualmente, di tornare a ricoprire un qualche ruolo di responsabilità, in virtù della sua esperienza. Se il fine comune è il bene dell’organizzazione di cui si è parte, il fatto di essere o meno chiamati nuovamente a compiti particolari dovrebbe essere secondario. Anche continuare a dare il proprio contributo senza ricoprire cariche particolari è fondamentale per trasmettere quanto di buono si è appreso durante l’esperienza in ruoli di coordinamento. Non c’è miglior esempio per dimostrare che la continuità non è data dalla permanenza delle persone, ma da quella delle idee.
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