A quasi trent’anni dalla ratifica della Convenzione Onu, nel codice penale italiano è stato inserito il reato di tortura. Così si legge nell’articolo 613-bis: «Chiunque con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona».

Questa formulazione è il risultato di una mediazione cominciata quattro anni fa, quando il Senatore Luigi Manconi presentò come primo firmatario una proposta di legge, che prevedeva l’istituzione del reato di tortura come “delitto proprio”. Questo poteva essere riconosciuto solo quando fosse stato perpetrato da un pubblico ufficiale o da un incaricato allo svolgimento di servizio pubblico. Nella versione definitiva della legge, il fatto che a commetterlo sia un pubblico ufficiale costituisce solo un’aggravante, mentre il delitto in sé è diventato di tipo “comune”. Su ZeroNegativo abbiamo seguito nel corso degli ultimi anni le vicende del disegno di legge, fermandoci poi quasi un anno fa, dopo l’ennesimo rinvio. Nel corso degli anni, quando una delle due Aule del Parlamento arrivava all’approvazione di un testo, l’altra immancabilmente proponeva qualche modifica, facendolo rimbalzare continuamente.

In questo andirivieni (come spesso accade) la legge si è logorata, ha perso forza e alcuni dei suoi tratti specifici, tanto che il suo firmatario, Manconi, ha deciso di astenersi durante l’ultima votazione al Senato, avvenuta il 17 maggio, che ha preceduto l’approvazione definitiva alla Camera di mercoledì 5 luglio. Come ricorda ValigiaBlu in un articolo che ricostruisce l’iter di questa legge, la Convenzione delle Nazioni unite del 1984 definiva la tortura come «qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate».

Come si può vedere, le differenze rispetto al nuovo comma del codice penale non sono poche. Una l’abbiamo già evidenziata, e riguarda il soggetto che commette il reato, che non deve necessariamente essere un pubblico ufficiale. Questo cambiamento fu tra i primi a essere introdotto, già nella versione approvata dal Senato nel 2014.

Nel 2015, nella seconda votazione alla Camera, si specificò che il reato di tortura si applica solo se la sofferenza subita dalla vittima è ulteriore «rispetto a quella che deriva dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti». Nello stesso anno, la commissione Giustizia del Senato modificò ulteriormente il testo: «Per configurarsi il reato di tortura – spiega ValigiaBlu – le violenze e le minacce devono essere “reiterate” e il colpevole deve aver agito “con crudeltà” e aver cagionato oltre a sofferenze fisiche anche “un verificabile trauma psichico”». La specifica della reiterazione fu cancellata dall’Aula pochi giorni dopo, tra le polemiche.

Le ultime modifiche, finite nella versione definitiva della legge, sono state apportate a maggio dal Senato: «Affinché ci sia tortura, il fatto deve essere commesso mediante “più condotte” o attraverso “un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”». Le perplessità relative a tutti questi distinguo, che riducono di molto il margine di applicazione della norma, arrivano dalle stesse istituzioni. «In un dossier del servizio studi della Camera viene specificato che il testo della legge “dal punto di vista sistematico, connota il delitto in modo non del tutto coincidente con quello previsto dalla Convenzione ONU e sembrerebbe rendere più ampia l’applicazione della fattispecie, potendo la tortura essere commessa da chiunque e indipendentemente dallo scopo che il soggetto abbia eventualmente perseguito con la sua condotta”».

Si è perso di vista, rispetto alla Convenzione Onu e rispetto alla proposta iniziale, il fulcro del reato di tortura, che non consiste nell’atto di violenza in sé, bensì nel fatto che a perpetrarlo sia chi è legalmente incaricato dell’uso della forza, nei casi in cui sia ravvisato un abuso di tale potere. Lo ha spiegato lo stesso Manconi: la tortura non è «misurabile sulla base dell’efferatezza, della crudeltà o dell’intensità delle sofferenze che infligge, bensì sulla sua origine. Questo è il nodo che nessuno vuol comprendere: non è un atto tra due individui capace di produrre sofferenze fisiche o psichiche, ma è l’atto commesso e realizzato da chi detiene legalmente il potere di tenere sotto controllo un’altra persona. Questa parola ‘legalmente’ è cruciale».

Un ulteriore elemento di perplessità legato alla legge è che questa non prevede nulla in merito alla prescrizione del reato. Nonostante «sia la giurisprudenza della Corte di Strasburgo che la stessa Convenzione di New York prevedano l’imprescrittibilità per la tortura», in uno dei passaggi alla Camera è stato eliminato il raddoppio dei termini di prescrizione. Per delitti di questo tipo, su cui è possibile che le indagini e i processi avvengano a distanza di molti anni dai fatti, è un dettaglio tutt’altro che secondario.

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