Dal primo aprile si potrà fare domanda per ricevere (a partire dal mese successivo, salvo ritardi) il cosiddetto “reddito di cittadinanza”, un sussidio di disoccupazione con alcune clausole che lo rendono di fatto un intervento di accompagnamento al lavoro. La Fish (Federazione italiana per il superamento dell’handicap) fa però notare come il decreto, per come è stato scritto, penalizza i nuclei familiari in cui ci siano persone con disabilità.
L’associazione aveva cominciato a segnalare alcune criticità già nella prima metà di gennaio, quando assieme alle bozze del decreto era circolato da parte del governo una sorta di post-it che dava per “fatto” l’aumento delle pensioni di invalidità. «Quanto alle previsioni per il reddito di cittadinanza, non contemplano alcun aumento dei trattamenti assistenziali per le persone con disabilità – scriveva Fish il 9 gennaio –: i loro nuclei familiari saranno trattati alla stessa stregua degli altri senza considerare, quindi, che la disabilità sia un fattore di impoverimento, di maggiore spesa, di ulteriore esclusione. Ma vi è anche un altro sconcertante risvolto: nel computo del reddito da considerare quale limite di accesso al reddito di cittadinanza e per il calcolo del suo ammontare, vengono conteggiate anche le pensioni di invalidità, cecità, sordità, oltre alle pensioni sociali. Inoltre nessun coefficiente aggiuntivo viene previsto nel caso nel nucleo vi sia una persona non autosufficiente o con grave disabilità».
Pochi giorni fa il presidente di Fish, Vincenzo Falabella, riprendeva l’argomento per spiegare come mai il governo cercasse di associare l’introduzione del “reddito di cittadinanza” a un presunto intervento sulle pensioni di invalidità: «Il gioco è molto semplice – ha detto Falabella –: vengono considerate alla stregua di un reddito le stesse pensioni di invalidità, criterio che avevamo chiesto fosse espunto dal decreto. Inoltre nessun coefficiente aggiuntivo considera la presenza di una persona disabile nel nucleo».
L’effetto distorsivo, secondo l’associazione, sarà dunque duplice: da un lato non si introduce un coefficiente aggiuntivo, cioè un criterio che renda la presenza di una persona con disabilità un elemento che dia diritto a una maggiore tutela economica da parte dello Stato; dall’altro, il fatto che nel nucleo familiare qualcuno riceva una pensione di invalidità diventa un parametro che fa scendere l’importo cui le persone che ne fanno parte hanno diritto, perché la pensione viene considerata alla stregua di un qualsiasi reddito. Sono criticità piuttosto gravi, a cui sarebbe bene mettere mano per evitare di creare distorsioni e ingiustizie in una norma che invece si prefigge di proteggere proprio i più deboli.
Il sito Lavoce.info rileva un più generale conflitto tra la dimensione individuale e quella familiare all’interno del decreto, che potrebbe aver portato a queste controverse conseguenze: «L’incertezza tra dimensione individuale e dimensione familiare resta nel decreto, con il rischio di produrre confusione tra politiche contro la povertà economica, politiche a favore dei working poor (lavoratori poveri), politiche attive e interventi contro la marginalità sociale dovuta ad altre cause (salute, devianze o altro)». L’articolo di Massimo Baldini si spinge a esprimere un suggerimento su come si sarebbero potuti raggiungere obiettivi simili modificando uno strumento già esistente, che sarà accantonato non appena entrerà in funzione il “reddito di cittadinanza”, il Reddito d’inclusione (Rei): «Su un tema così delicato e in un contesto così difficile come quello italiano, dove sono molto diffusi lavoro nero ed evasione fiscale, e dove l’amministrazione pubblica non ha certo un’efficienza tedesca, sarebbe stato più saggio incrementare per tappe successive gli importi e la platea raggiunta dal Rei, valutandone attentamente gli effetti nei tanti ambiti coinvolti. Nel giro di 3-4 anni si sarebbe potuto arrivare a tutti i poveri assoluti, contenendo il rischio di possibili effetti indesiderati».
(Foto di Nathan Anderson su Unsplash)