La tensione è alta attorno alle proposte del governo contenute nella manovra finanziaria che andrà approvata entro la fine dell’anno. Su uno dei punti forti del programma di governo, il cosiddetto “reddito di cittadinanza”, ci sono pareri molto diversi e contrastanti tra gli esperti di economia e di politiche sociali. Secondo Cristiano Gori, ideatore dell’Alleanza contro la povertà in Italia si tratta di un’occasione da non perdere, e per questo mette in guardia da alcuni possibili errori che potrebbero essere commessi da qui alla sua definitiva approvazione.

Prima di addentrarsi nella sua spiegazione, bisogna precisare che i contorni del “reddito di cittadinanza” non saranno chiari finché la Legge di bilancio non avrà completato il suo percorso, con l’approvazione parlamentare che dovrà avvenire entro la fine dell’anno. Quelli approvati finora (Def, Nadef, la bozza inviata alla Commissione europea) non sono documenti definitivi, per quanto importanti per capire le intenzioni del governo sulla legge più importante dello Stato.

Innanzitutto Gori fa una distinzione molto netta tra le politiche contro la povertà e le politiche per il lavoro. A seconda di come sarà modulata la proposta in questione, il “reddito di cittadinanza” potrebbe posizionarsi tra le prime o tra le seconde. Il rischio più grande è che si fermi a metà, creando confusione sui suoi reali intenti e rischiando di indebolire il proprio impatto. «Le politiche contro la povertà sono rivolte a chi è in povertà assoluta, cioè privo delle risorse per assicurarsi uno standard di vita appena decente – scrive Gori –: nel nostro paese sono i 5 milioni d’individui nelle condizioni economiche peggiori. Si eroga un mix di contributi monetari e servizi alla persona con l’obiettivo principale non tanto di incrementare direttamente l’occupazione, bensì di contrastare la povertà nelle sue molteplici sfaccettature (economiche, relazionali, familiari, lavorative, psicologiche, abitative e così via). Spesso si agisce sulle competenze dei numerosi utenti a bassa occupabilità per migliorarle progressivamente, ma solo in alcuni casi li si (re)introduce nel mondo del lavoro. Negli altri paesi europei – mediamente con minore disoccupazione e centri per l’impiego più strutturati rispetto all’Italia – queste politiche riescono a condurre a un’occupazione stabile il 25 per cento dei beneficiari. Il pericolo è che quelle contro la povertà vengano trasformate in politiche per il lavoro, da indirizzare invece a persone disoccupate, ma non in povertà assoluta, che generalmente hanno maggiore occupabilità. Una simile scelta danneggerebbe, innanzitutto, i poveri di oggi, privandoli di quell’insieme di risposte di cui l’inclusione lavorativa è solo una parte. Dunque, rafforzare i centri per l’impiego è certo necessario, ma sarebbe sbagliato assegnare loro la responsabilità complessiva della misura. Non solo perché attualmente non avrebbero la forza per gestirla, e ci vorrà tempo prima che il potenziamento previsto dia i suoi frutti, ma anche perché i servizi sociali comunali sono gli unici a detenere le competenze necessarie ad affrontare la multidimensionalità della povertà».

Secondo l’economista Andrea Fumagalli, il problema principale del “reddito di cittadinanza” così come è stato anticipato è rappresentato dall’eccesso di vincoli all’accesso. Dopo aver elencato quanto fatto in altri Paesi europei, Fumagalli chiarisce quali sarebbero i vincoli nella versione italiana del provvedimento: «L’accesso dovrebbero essere limitato a coloro che hanno una soglia di reddito inferiore alla povertà assoluta (780 euro mensili), sulla base dell’indicatore Isee (che tiene conto del patrimonio personale, compresa l’eventuale casa di abitazione). Vale per i soli cittadini italiani. Per evitare rischi di incostituzionalità, pare che vi possano accedere anche gli stranieri (comunitari e extra-comunitari) che vivono legalmente in Italia da più di 10 anni (per il Rei – Reddito di inclusione – introdotto dal governo Gentiloni, il limite era 5 anni). I beneficiari hanno l’obbligo di accettare la terza proposta di lavoro. Si devono iscrivere ai Centri per l’impiego e firmare un impegno per l’inserimento lavorativo (così come avviene per il Rei). Sono obbligati a fornire gratuitamente 8 ore settimanali di lavoro socialmente utile a vantaggio del comune di residenza. Inoltre, gli acquisti effettuati dai beneficiari vengono tracciati digitalmente e si devono limitare ai soli beni di stretta necessità».

I due autori sono in disaccordo per quanto riguarda un’altra proposta correlata, ossia l’innalzamento delle pensioni minime. Secondo Gori sarebbe un errore privilegiare quest’ultima misura: «Benché anche tra [i pensionati] vi siano sacche di indigenza da combattere, gli anziani sono coloro che meno soffrono la povertà in Italia, dove il fenomeno aumenta progressivamente al ridursi dell’età». Secondo Fumagalli, «Va invece visto favorevolmente il fatto che a questo reddito di cittadinanza, selettivo, condizionato e che non elimina la povertà né la precarietà, si accompagna la misura che alza il livello minimo delle pensioni a 780 euro mensili in modo incondizionato».

(Foto di Ev su Unsplash)