Sul referendum, al di là delle misure su cui ognuno può avere la propria legittima opinione, ci sono alcuni punti su cui occorre fare chiarezza. Il governo sta infatti utilizzando alcuni argomenti, gonfiandone il peso e la portata, per spingere gli elettori a votare sì. Su tutti, il beneficio per il Paese in termini di abbassamento dei costi della politica e di snellimento del lavoro del Parlamento. Per quanto riguarda il primo, l’economista Roberto Perotti ha pubblicato su Lavoce.info una sua elaborazione dei dati in base al testo della riforma. Secondo il suo calcolo, nella più rosea delle prospettive il risparmio per i contribuenti nel 2020 sarebbe di 140 milioni di euro, di 160 una volta a pieno regime la nuova Costituzione.

Per dare una dimensione più precisa alla cosa, potrebbe essere utile confrontare queste cifre con le leggi di Bilancio dello Stato. Per fare un esempio, si stima che la legge di Bilancio 2017 avrà un valore di circa 27 miliardi di euro. Prendendo quindi come riferimento la cifra più alta del risparmio previsto (vogliamo essere buoni), con la riforma pienamente a regime il risparmio ammonterebbe allo 0,6 per cento rispetto al bilancio dello Stato. Un impatto piuttosto modesto, come si può notare. Certo ci siamo abituati in questi anni a commentare cifre e tassi di crescita sempre nell’ordine dello “zerovirgola”, ma mettere tra i punti fondamentali di una riforma (tanto da citarlo nel quesito referendario) un intervento di così piccola portata è oggettivamente fuorviante. Riprendiamo alcuni punti dello studio di Perotti per capire meglio come viene fuori questa cifra. Tra le questioni più citate dal presidente del Consiglio e dai suoi ministri nelle frequenti apparizioni pubbliche c’è la chiusura del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro).

Non viene mai detto che il Cnel è stato già di fatto chiuso con legge ordinaria: «Nel bilancio di previsione per il 2016 il compenso per gli organi istituzionali era già uguale a 0», scrive Perotti. Nell’eliminare le spese rimanenti del Cnel, la Ragioneria dello Stato prevedeva in una nota del 2014 un ulteriore risparmio di 8,7 milioni di euro. Ma questo avverrebbe se tutto il personale coinvolto nel Cnel venisse licenziato, mentre la riforma «ha disposto che tutto il personale del Cnel venga assunto dalla Corte dei Conti, quindi non vi sarà alcun risparmio su quel fronte». Dunque di quegli 8,7 milioni ne resteranno, secondo Perotti, solo 3.

Un’altra voce di spesa che sparisce solo di nome è quella per le province. Con legge ordinaria, nel 2014, queste sono già state svuotate delle loro funzioni, i dipendenti pubblici sono in fase di riassorbimenti in altri enti pubblici e gli emolumenti ai consiglieri provinciali sono stati aboliti. Dunque, indipendentemente dal risultato del referendum, questi risparmi rimarranno. La voce da cui il bilancio dello Stato dovrebbe trarre maggiori risorse resta quella del Senato, che però continuerà ad avere dei compiti di una certa importanza, dunque alcuni costi diminuiranno ma altri aumenteranno, limitando così l’efficacia del suo riordino: «La riforma, inspiegabilmente, ha attribuito al Senato il nuovo compito di valutare le politiche economiche e territoriali del governo. In altre parole, il Senato si dovrà trasformare in un centro studi, tipo Svimez. Inoltre, come è stato giustamente affermato, i senatori potranno lavorare solo alcuni giorni al mese; gli altri giorni, il lavoro di supporto dovrà essere assegnato alla loro segreteria, i cui ranghi dovranno venire corrispondentemente rimpolpati. Infine, i senatori che giungono da tutta Italia avranno sicuramente diritto almeno a un rimborso spese. Sommando tutti questi risparmi e aumenti di spesa, stimo un risparmio per il contribuente di 107 milioni nel 2020 (due anni dopo l’inaugurazione del primo Senato con le nuove regole) e di 131 milioni a regime, diciamo nel 2030». Insomma non è falso dire che ci saranno risparmi per lo Stato e per i cittadini, ma è una verità più marginale di quanto si voglia far credere.

Venendo poi alla produttività del Parlamento (ammesso che abbia senso una valutazione quantitativa della prolificità legislativa in un Paese già altamente iper-normato), i dati di OpenPolis dimostrano che il bicameralismo paritario non ha un impatto così invalidante per l’attività legislativa: «In media le leggi navetta richiedono tempi di approvazione doppi rispetto alle altre, ma il loro peso sui lavori parlamentari è bassissimo. Per approvare 252 leggi Camera e Senato hanno lavorato 69.752 giorni, di cui solo il 4,15 per cento per discussioni andate oltre la seconda approvazione». Certo, se si isolano i casi di “navetta” (ossia le leggi sottoposte a più approvazioni da Camera e Senato perché, a ogni discussione, una delle camere introduce variazioni al testo), i tempi di approvazione aumentano vertiginosamente, da una media di 237 giorni di discussione a 460. Ma non ha senso prendere pochi casi come prova per dimostrare che un sistema non funziona. Inoltre, sono gli stessi dati della Camera a mostrare che l’Italia è già ora uno dei Paesi in cui vengono approvate più leggi in Europa. La domanda è legittima: sono le regole del gioco il problema, o lo è la qualità dei giocatori?

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