Da qualche tempo, come tutti gli italiani con diritto di voto (e non), stiamo cercando di farci un’idea su come affrontare il referendum del 4 dicembre che sancirà l’accoglimento o meno della riforma costituzionale votata dal Parlamento. La difficoltà maggiore in questo caso è proprio formarsi un’opinione, visto che i due schieramenti, per il Sì e per il No, stentano a fornire spiegazioni chiare e libere da considerazioni che esulano dalle disposizioni presenti nella riforma.

Ribadiamo, nel caso ci fossero dubbi, che Avis è sempre stata e continuerà a essere un’associazione apolitica e apartitica, dunque lungi da noi schierarci per motivi politici da una parte o dall’altra. Essendo l’oggetto della discussione una riforma costituzionale, pensiamo sia nostro dovere affrontare l’argomento su queste pagine, se non per suggerire cosa votare, almeno per fare qualche considerazione. Già tutti questi preamboli che ci siamo sentiti in dovere di fare sono un’indice di quanto la percezione verso questo referendum sia spostata su questioni politiche, più che istituzionali. Se ci dimostrassimo, per ipotesi, più favorevoli al Sì, sarebbe percepito come un tacito endorsement al governo in carica, e viceversa? Già questo è un problema, ed è stato innescato dallo stesso presidente del Consiglio, Matteo Renzi, quando all’inizio della campagna per il Sì ha detto che, in caso di vittoria del No, avrebbe smesso di fare politica. Poi ha capito che si trattava di un errore ed è tornato sui suoi passi, ma non sembra che attorno a lui sia molto cambiata la percezione del voto.

I due schieramenti (a cui se ne aggiunge un terzo, sempre più cospicuo, quello del Non so) si sono presto trasformati in tifoserie, e si sa bene che queste ultime ragionano più con la pancia e a suon di slogan, che con la testa e argomentando. Ognuno, da una parte e dall’altra, mediamente si attacca a un micro-argomento più o meno collegato al contenuto della riforma (e più o meno vero), e lo ripete continuamente. Per esempio, restando alla personalizzazione del voto fatta dallo stesso capo del governo, in molti suggeriscono di votare No per “mandare a casa Renzi”. Una motivazione “da tifosi”, certamente, che però fa il paio proprio con ciò che all’inizio diceva Renzi, e cioè di votare Sì perché altrimenti cade il governo. A farne le spese sono i contenuti della riforma, che passano del tutto in secondo piano se la vera motivazione della scelta è sulla sopravvivenza dell’esecutivo. Altra considerazione dei sostenitori del No è che questa riforma non vada nemmeno presa in considerazione, perché voluta da un governo che non è mai stato votato dai cittadini, approvata inoltre “a colpi di maggioranza” in Parlamento, e non attraverso un accordo tra maggioranza e opposizioni, come ci si augura avvenga.

A voler uscire dalle tifoserie, bisognerebbe ricordare che nel 2001 un’altra riforma elettorale fu votata da un governo non eletto dai cittadini, quello di Giuliano Amato, anche in quel caso senza troppo cercare accordi con le opposizioni, ma facendosi bastare i numeri della maggioranza, e per giunta a fine legislatura, quando si dovrebbero evitare cambiamenti radicali alle “regole del gioco”. Allora non ci fu uno “stracciamento di vesti” così esibito in difesa della democrazia e dei diritti umani, come sembra di vedere oggi. La riforma fu approvata e venne pure ampiamente confermata dal referendum che seguì. Negli anni essa ha generato problemi e conflitti di competenza legislativa tra Stato e Regioni che ci trasciniamo ancora oggi, ma allora fu sostanzialmente accettata. Peraltro l’attuale riforma punta a rimettere nelle mani dello Stato alcune materie che allora, quando l’autonomia territoriale sembrava il futuro, erano state trasferite alle Regioni.

Andando oltre, a chi provi a contestare nel merito le soluzioni trovate dal governo per snellire il processo legislativo, Renzi risponde, sostanzialmente, che ognuno può avere la sua personale visione di come si potevano fare le cose, ma intanto se non si vota questa riforma non sarà possibile in Italia parlare di messa in discussione del bicameralismo perfetto per i prossimi trent’anni. Suona un po’ come un ricatto: oltre a votare Sì perché se no cade il governo, dovremmo votare Sì, che ci piaccia o no il contenuto della legge, perché altrimenti tutto resterà com’è e dunque l’Italia andrà a rotoli? Vorremmo che ci si spiegasse perché. Nel “duello” televisivo tra Renzi e il costituzionalista Gustavo Zegrebelsky, quest’ultimo (pur uscendo “sconfitto”, a causa della sua poca dimestichezza con i tempi e i modi della tivù) faceva notare giustamente che la scarsa produttività del Parlamento italiano è dovuta più alla litigiosità di chi ci sta dentro, che non al bicameralismo perfetto. Questo discorso ci porterebbe a parlare anche di legge elettorale, ma visto che probabilmente sarà modificata evitiamo di addentrarci.

Altro nodo su cui si sono spese parole e invettive è l’articolo 70, quello che descrive le competenze legislative di Camera e Senato. I detrattori della riforma sostengono che si sia passati dalla sublime chiarezza dell’attuale testo a una prolissità da Azzeccagarbugli, per definire le competenze delle due aule, che alla fine genererà solo confusione. Da un lato ci sembra sterile la polemica, se posta in questo modo. È ovvio che se l’attività di Camera e Senato si diversifica, andrà spiegato in che modo, mentre se fanno le stesse cose, andrà solo detto che “fanno le stesse cose”. Dall’altro è vera un’altra cosa che sosteneva (troppo timidamente) Zagrebelsky durante il dibattito, ossia che stabilire sulla carta una serie di “materie” di competenza dell’una o dell’altra camera può sembrare molto chiaro. Nella realtà però le leggi non si possono sempre differenziare tra loro “per materia”, perché spesso una stessa questione su cui si va a legiferare può essere ascritta a varie materie, dunque c’è il rischio che si replichi, tra Camera e Senato, il conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni che da un quindicennio intasa l’attività della Consulta.

Concludendo questa prima serie di riflessioni sulla riforma e sul referendum, ci auguriamo che a breve qualcuno si prenda la briga di spiegare la riforma costituzionale per ciò che è, argomentando magari con esempi e simulazioni, prima di tirare in ballo concetti ormai consunti come “se vince il Sì deriva autoritaria” o “se vince il No restiamo nella palude”.

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