
Alla fine la conta c’è stata, e i risultati sono di quelli che non lasciano spazio a fraintendimenti. Un milione e 210mila firme sono davvero tante, e il messaggio subliminale è: andate -tutti- a casa. Le firme di cui parliamo, ovviamente, sono quelle raccolte per il referendum che propone l’abrogazione parziale dell’attuale legge elettorale, in modo da riportare la situazione a prima del 2005. In altre parole, tornare dal “Porcellum” al “Mattarellum”. Ricordiamo che la raccolta nei municipi si è concentrata in pratica al solo mese di settembre (e molti si sono fatti trovare impreparati inizialmente, com’è accaduto a Napoli), mentre solo il comitato promotore e l’Italia dei Valori hanno organizzato banchetti in giro per il Paese per tutta l’estate. Il Pd si è aggiunto in corsa, spaccandosi al suo interno, come da migliore tradizione, in fazioni che vanno dal rifiuto totale all’acclamazione entusiasta; tra le due una serie di sofisticate sfumature di grigio. Chi ci mette il banchetto ma non la firma (Bersani), chi non promuove ma contribuisce a raccogliere le firme (Bindi). La realtà è che i cittadini hanno scelto di non accettare i soliti giochi di potere tra partiti e rispettive prime donne. L’enorme numero di firme raccolte in così poco tempo e con così poca pubblicità rappresenta uno squarcio nel solito ordito di chiacchiere che compone quotidianamente la politica di casa nostra.
Manca ancora l’approvazione dei quesiti da parte della Corte costituzionale, ma il segnale, l’ennesimo, è stato lanciato, e alcuni politici sembrano aver capito l’antifona. Come Maroni, che si è resto conto di come il fatto non possa essere ignorato ed è favorevole al voto. C’è invece chi preferirebbe modificare la norma in Parlamento, anticipando la consultazione e occupandosi subito del merito della questione. E c’è anche chi vedrebbe di buon occhio un voto anticipato (quindi utilizzando il Porcellum), in modo da far slittare il referendum e al contempo mettere al sicuro la poltrona per un’altra legislatura. Ciò che preoccupa è che, ancora una volta, siamo costretti ad affidare un cambiamento importante per il funzionamento della democrazia a un gruppo di persone che rappresenta l’antitesi del cambiamento, per età anagrafica, per freschezza delle idee, per numero di promesse non mantenute in rapporto a quelle fatte. Come ha scritto efficacemente Massimiliano Gallo su Linkiesta il 30 settembre: «Il Paese e il Palazzo parlano due lingue diverse». La gente non è più disposta ad accettare il frame, la visione del mondo, che ci viene proposta dalla classe politica. Probabilmente non sa più a chi affidarsi nel panorama della rappresentanza. Unico minimo comune multiplo in questa perdita di riferimenti sembra essere il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che con i suoi moniti cerca di mettere l’accento sull’importanza di ricostruire il rapporto tra cittadini e Stato: «È ormai ampiamente diffuso il riconoscimento per cui una diversa legge elettorale può facilitare il ritorno della fiducia nelle istituzioni».
Così, uno dei nodi più tecnici e complicati del corpus normativo italiano diventa strumento di polarizzazione del dibattito pubblico. Ormai ogni appiglio è buono per continuare la scalata verso una più alta concezione della politica. Gli italiani stanno dimostrando di essere capaci di mobilitarsi, non solo con rivolte a colpi di clic e di sottoscrizioni pro o contro. È da molto tempo che non mancano un appuntamento, non appena percepiscono che questo potrebbe contribuire a rendere più chiaro il messaggio. E chi sta nel Palazzo farebbe bene a prestare ascolto.