In Italia le emergenze tendono a non avere una fine. Per definizione, un’emergenza dovrebbe avere un limite temporale, dopo il quale si torna a un qualche tipo di “normalità”. Che non vuol dire riprendere a vivere esattamente come prima dell’emergenza, ma almeno arrivare a non doverci pensare più. In vari luoghi colpiti da terremoti, dall’Aquila in poi, moltissime persone vivono ancora in residenze temporanee, tra scandali e sprechi. Sul blog Il lavoro culturale è stato pubblicato un reportage in due puntate che racconta cosa ha comportato il lockdown nelle aree dell’Appennino centrale colpite dai terremoti del 2016 e 2017. Vediamo di seguito i passaggi più interessanti di questa realtà extra-cittadina, poco raccontata dai media e a cui raramente chi vive in città pensa (se non per programmare gite fuori porta, un’attività poco frequentata negli ultimi mesi).
Isolamento
Restare a casa se si vive in montagna spesso non è possibile, perché i servizi di base come i supermercati sono situati nelle valli. «Dopo quasi un mese di lockdown, sono stati attivati i “buoni spesa”, per evitare di innescare un vortice di concorrenza aggressiva e favorire i commercianti che rischiano di perdere clienti». Il fatto di vivere in luoghi dalla bassa densità abitativa però rende anche meno pesanti le conseguenze del virus. La gente di città, tutto sommato, in questi casi porta solo problemi. «Passeggiare nella natura consente di poter trovare dei luoghi, delle “isole” dove togliere la mascherina, relativizzando la pervasività e il peso del virus. A qualcuno manca la vita di paese, ma d’altronde il “vuoto urbano” è un fattore a cui ci si è anche un po’ abituati. Un amico sentito al telefono mi ha detto: “Anche normalmente guardo fuori dalla finestra e comunque non vedo nessuno che passa!”. In questo momento le aree interne potrebbero anche essere contente di tagliare i ponti con noi cittadini, che, in fin dei conti, ci ricordiamo della loro esistenza solo in prossimità della gita fuori porta domenicale, quando, caritatevolmente, risolleviamo l’economia fermandoci a comprare un ciauscolo o una confezione di lenticchie».
Soluzioni abitative in emergenza
Ma come si sta nelle SAE, cioè le Soluzioni abitative in emergenza? Secondo Enrico Mariani, autore del reportage, da un certo punto di vista «La situazione sembra essere sotto controllo e, anzi, per qualcuno la vicinanza favorisce occasioni di scambio e condivisione quotidiane dalla propria porta di casa. Allo stesso tempo sentire i “rumori” dei vicini può intaccare la tranquillità dei propri ritmi abitativi. Alcuni dicono che passare tanto tempo in casa, invece che portare alla cura dello spazio intimo e di interiorità trascurate, possa rievocare la passata emergenza: “Ho letto di gente che approfitta della quarantena per rispolverare le vecchie foto o i vecchi diari, ma noi qui non abbiamo più neanche i ricordi”». Se sul piano pratico le cose non vanno così male, la permanenza prolungata in casa per chi vive in queste strutture può avere conseguenze psicologiche negative. «Secondo gli psicologi di Emergency abitare nelle SAE può essere problematico in questo periodo. Se molti hanno gli strumenti per fronteggiare la situazione, riuscendo a infondere serenità e forza alle persone che hanno intorno, la reclusione imposta in abitazioni non-proprie può generare il “riattivarsi del vissuto traumatico connesso al sisma”. Il pericolo esterno, che quindi sarebbe “nell’aria”, cioè ovunque, può portare a un panico che paralizza, che congela. Dover-stare dentro introduce ad una percezione del rischio che si sposta in maniera imprevedibile dal dentro al fuori: “prima ti dicono tutti fuori, c’è il terremoto, poi tutti dentro, c’è il coronavirus!”». Restare a casa non è dunque facile per chi non ha una propria casa (le SAE non possono essere modificate o personalizzate in alcun modo, per facilitare lo smaltimento). Un lenzuolo apparso ad Arquata del Tronto, racconta Mariani, recita “Non stiamo a casa dal 24/8/2016”. Nel frattempo è stato lanciato l’hashtag #iorestoinsae. «Come afferma lo psicologo Valerio Valeriani le SAE hanno attivato l’utopia del ritorno, “Ossia l’ansia iniziale di ritornare nel proprio paese, ma quando è accaduto grazie alle SAE, ci si è accorti che comunque il paese che conoscevamo non esiste più”. E si realizza presto che per molti “una SAE è per sempre”, e che in esse si deve in ogni caso articolare una forma abitativa di lungo termine. L’acronimo SAE è in questo senso profetico: esplicita un abitare in emergenza destinato a durare quanto la stessa presenza delle casette sul territorio».
(Foto di Yves Moret su Unsplash)