In questi giorni alcuni leader politici si stanno spendendo attivamente per promuovere un percorso di riforma del “reddito di cittadinanza”. Nei loro interventi fanno spesso ricorso alla retorica della meritocrazia, secondo cui – in estrema sintesi – a grandi sforzi corrispondono, nel tempo, grandi risultati. Si tratta di un assunto che dà per scontate diverse cose e che presuppone di accettare il sistema così come lo conosciamo. Come scrive Matteo Pascoletti su ValigiaBlu, «Gli inviti a “sudare”, a “mettersi in gioco”, l’assunto che le competenze e i talenti (come quelli sportivi) vadano premiati e non debbano incontrare ostacoli; l’idea che l’inattività, a prescindere dalla causa, sia una colpa individuale, così come il fallimento; il paternalismo neanche troppo mascherato; l’idea che per essere aiutati si debba quanto meno prima provare a far qualcosa, e che quindi non basti trovarsi in una condizione di bisogno, di necessità, ma si debba dar prova di meritare un aiuto. Possiamo vedere nella mappa di significati tracciata da questi esempi l’ideologia meritocratica e la sua retorica. Ovvero l’idea che si debba “premiare il merito”».

Prima di proseguire, per evitare fraintendimenti, occorre chiarire alcune questioni lessicali. «Come spiegato, tra gli altri, da Mauro Boarelli in Contro l’ideologia del merito – prosegue Pascoletti –, la meritocrazia utilizza e fa proprie parole che di per sé hanno un significato positivo o autoevidente. Chi vorrebbe del resto mettere a capo di un reparto ospedaliero un inetto? Tutti noi vorremmo che a guidarlo vi fosse la persona più competente a disposizione. Ma queste parole delineano un’ideologia dove la vita politica e i valori di riferimento coincidono con il modello economico. Così le competenze, la loro acquisizione e la loro valutazione sono tutti filtrati attraverso l’idea che l’uomo non sia cittadino, ma impresa».

Le precondizioni per la meritocrazia

L’idea del merito potrebbe anche funzionare, ma ad almeno due condizioni: che tutti abbiano le stesse condizioni di partenza, e che ci sia un mercato in grado di accogliere iniziative e competenze. Per soddisfare la prima, però, in molti casi sarà necessario un sussidio prima di iniziare a muoversi nel contesto meritocratico. Si apre quindi un paradosso: una retorica che premia l’iniziativa personale richiede che tale iniziativa, per esprimersi, disponga di un supporto (economico, formativo, sociale, ecc.). Tagliare misure come il “reddito di cittadinanza”, però, equivale a dire che bisogna prima meritarsi l’aiuto, il che è a sua volta paradossale.

La retorica meritocratica vede con fastidio la condizione del disoccupato privo di formazione, di mezzi economici e culturali per uscire dalla propria condizione. Se lo si aiuta, è il ragionamento paternalista, lo si autorizza a perseverare nella propria condizione di passività. Deve prima dimostrare di voler uscire attivamente dalla propria condizione: solo allora è accettabile dargli un supporto. Tutto ciò che ostacola la realizzazione individuale, vista come unico obiettivo, è trattato con fastidio e sospetto, come qualcosa che va contrastato anziché capito o ancor peggio supportato.

«In Italia – scrive Pascoletti – va di moda ormai il pigro recettore di “reddito di cittadinanza”. Di solito è meridionale, o è giovane, comunque indolente. […] Abbiamo poi anche i “furbetti del reddito di cittadinanza”, quelli che insomma, non è che sono soltanto pigri: sono disonesti proprio e sottraggono soldi. Ma le cronache sono piene di falsi invalidi, o pensioni d’oro, o furbetti del cartellino – lo statale, ovvero il lavoratore garantito per eccellenza, ovvero l’antitesi dello spirito imprenditoriale».

Meritocrazia e contesto

Ancora più difficile da accettare il ricorso a tale retorica visto il contesto. Da un lato c’è la pandemia, che ha messo in evidenza in forma estremizzata i limiti del singolo nel determinare la propria condizione. Poi ci sono le sue conseguenze sul piano economico e occupazionale. Difficile convincere qualcuno che “alla fine i risultati si ottengono” quando il mondo là fuori si ferma. Basta chiedere a musicisti, artisti, lavoratori nel campo della ristorazione, negozianti, ecc.

Più in generale, è cambiato il contesto rispetto a quando è stata scritta la nostra Costituzione, che nei primi articoli riserva uno spazio particolare al tema del lavoro. Oltre al primo comma dell’articolo 1 («L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro»), l’articolo 4 recita: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».

L’idea del lavoro come dovere è certamente rimasta radicata nel discorso pubblico – compresa la retorica meritocratica – mentre quella del lavoro come diritto è stata piuttosto trascurata.

C’è poi l’ultimo tema, che torna periodicamente alle cronache fino quasi a diventare un genere giornalistico a sé. Quello dei datori di lavoro disperati perché non trovano lavoratori. Una narrazione che fa comodo a chi, nel difendere la meritocrazia, cerca di spostare il problema sui cittadini, meglio se giovani, portando come esempio quei pochi che “spaccandosi la schiena” alla fine “ce l’hanno fatta”. Ma come scrive Giulia Blasi, sempre su Valigia Blu, «La storia del giovane che guadagna bene perché si ammazza in giro per la città in bici senza assicurazione, ferie, malattia è complementare a quella del giovane che non vuole faticare e dice no all’assunzione nel ristorante o nella panetteria, o peggio, va al colloquio con la pretesa di sapere a quanto ammonta la retribuzione. Nella narrazione, la voce del padrone è l’unica che conta, la sua versione l’unica rilevante. Le successive verifiche su retribuzione, inquadramento contrattuale e tutele, se vengono fatte, occupano molto meno spazio della lamentela».

(Foto di Joshua Golde su Unsplash )

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