Torniamo sull’argomento della pubblica amministrazione (dopo l’articolo sugli stipendi dei dirigenti Rai) per cercare di capire alcuni meccanismi che rendono il funzionamento del nostro Stato piuttosto paradossale. Come fa notare l’autore che si firma Montesquieu sul sito della Rivista di politica, nel nostro Paese c’è una deleteria scollatura tra retribuzione, responsabilità e sanzione.

I compensi della dirigenza Rai sono un esempio lampante di tale paradosso, con i “tetti” sistematicamente aggirati, le persone senza incarico che continuano a ricevere lo stipendio e dunque con l’impossibilità di valutarne il merito ed eventualmente intervenire. Nel portare le logiche private nelle aziende pubbliche, entrando in competizione col privato dal punto di vista delle retribuzioni in modo da assicurarsi le risorse migliori, si è però dimenticato di inserire nel pubblico la stessa flessibilità in uscita. Come spiegavamo, gli incarichi assegnati dal nuovo direttore generale Rai sono triennali, dunque il problema nei prossimi altri non dovrebbe aggravarsi.

L’altro paradosso sottolineato da Montesquieu è quello opposto: incarichi di grande responsabilità che vengono svolti a titolo gratuito, in caso di pensionati il cui reddito arrivi al tetto previsto dalla norma. «C’è un principio a cui qualsiasi organizzazione burocratica, pubblica o privata, sotto qualsiasi latitudine, lega la propria efficienza, e la stessa efficacia: il legame tra responsabilità e riconoscimento, in primo luogo retributivo, e quello tra inefficienza e possibilità di sanzione. Questo legame è inesistente nei due paradossi: il lavoro senza guadagno e il guadagno senza lavoro». A suo parere, questa situazione schizofrenica è data da una tendenza dei governi che si sono succeduti negli ultimi decenni a riformare continuamente alcuni settori della vita pubblica, creando grande confusione e incertezza normativa, senza però il coraggio o la capacità di mettere mano agli aspetti che più necessiterebbero di innovazione, ma con i quali nessuno “si sporca le mani”. Per esempio le pensioni, «Con la conseguenza schizofrenica – scrive Montesquieu – di generazioni sincopate di pensionati d’annata, con età di uscita dal lavoro che variano tra i quaranta ed i settant’anni; di contribuenti targati dal tale governo, di diplomati e laureati del talaltro; e via discorrendo».

Sempre in tema di pubblica amministrazione, c’è anche una questione “quantitativa”, relativa al numero di persone occupate in relazione alla spesa effettuata e al livello dei servizi garantiti. Istintivamente, verrebbe da dire che per cominciare bisognerebbe tagliare posti, e in effetti anche il dossier elaborato da Carlo Cottarelli individuava 85mila esuberi tra i dipendenti pubblici. Analizzando più da vicino la situazione italiana, ci si accorge però che probabilmente, se c’è un eccesso di dipendenti pubblici in alcuni settori e in alcune aree geografiche, c’è carenza di personale qualificato altrove. È ciò che sostiene un gruppo di professori e ricercatori di Economia, che ha elaborato una “proposta neokeynesiana” di sviluppo che parte proprio dall’assunzione di nuovi dipendenti della pubblica amministrazione. Questo perché, sostengono, l’economia di uno Stato non può funzionare se la macchina statale non funziona bene. Dunque bisogna assumere tra gli 800mila e il milione di nuovi dipendenti, con un livello di istruzione alto. «Non si dovranno fare assunzioni “lineari”, ma dove servano, cioè dove siano massimamente utili per lo sviluppo (es. giustizia civile, istruzione, sanità, ordine pubblico, nonché, naturalmente, riassetto del territorio e valorizzazione dei beni culturali)».

Sembra assurdo, ma da un confronto con altri Paesi dalla popolazione paragonabile a quella italiana, emerge che da noi i dipendenti pubblici sono molti meno che altrove: «Nel 2011 (dati Oecd) in Italia c’erano 3.435.000 di dipendenti pubblici (di cui 320mila precari, tra collaboratori e partite IVA), contro i 6.217.000 della Francia e i 5.785.000 del Regno Unito». Il confronto ci vede parecchio indietro anche sul livello di scolarità degli impiegati: abbiamo solo un milione di laureati contro i tre milioni della Gran Bretagna. Il progetto costerebbe intorno ai 20 miliardi: come finanziarlo? Attraverso una tassa patrimoniale, secondo i promotori, «sulla ricchezza finanziaria superiore a 130mila euro, che riguarderebbe circa metà dei nuclei familiari. L’imposta avrebbe carattere progressivo dal 2 al 6 per mille». Introdurre tasse sulla ricchezza è una delle cose più difficili in Italia, in molti hanno fatto annunci promettenti, ma sono poi stati costretti a tornare sui propri passi. Togliere un milione di persone (per di più giovani e ad alta scolarizzazione) dalla disoccupazione darebbe di sicuro uno slancio ai consumi e aumenterebbe il livello di fiducia nel futuro e nello Stato. È davvero fattibile? Sarebbe interessante che la politica rispondesse.