Per un attimo, che è sembrato lunghissimo, il nome del sindaco del piccolo comune di Riace, in Calabria, è finito tra le pagine dei più importanti giornali del mondo. Questo perché la rivista Forbes ha deciso di includere Domenico Lucano tra i 50 leader più importanti del pianeta. Non certo perché Riace sia una nuova superpotenza economica in grado di fare paura ai grandi della Terra, ma perché con la sua politica di accoglienza dei migranti ha creato un modello ammirato e studiato in tutta Europa.

Tutto ebbe inizio, come spiega Ida Dominijanni su Internazionale, a Natale del 1997, quando sulle coste della Calabria ionica si riversarono più di 800 persone. Si trattava principalmente di curdi, in fuga dai Paesi più instabili del Medio Oriente e dalle loro guerre civili e militari. Inizialmente furono i comuni costieri a farsi carico dei migranti. Gli abitanti di Soverato, Badolato e Monasternace aprirono le porte ai migranti che, proprio come accade oggi, avevano bene in mente che la loro destinazione finale sarebbe stata la Scandinavia, l’Italia rappresentava solo una tappa necessaria di un viaggio lungo e difficile. La storia andò invece diversamente, e per molte di quelle persone la Locride – un’area territoriale che nel racconto mediatico è sempre legata a depressione economica, criminalità organizzata, svuotamento per emigrazione – diventò una nuova casa.

Grazie all’amministrazione comunale di Soverato, all’epoca formata da una coalizione giovane guidata dal sindaco Gianni Calabretta, si mise in moto una macchina dell’accoglienza che sorprese tutti, e che risvegliò anche lo spirito solidale dei cittadini: «Si allestirono scuole e ospedali – spiega Dominijanni –, ci si impadronì dei meandri burocratici attraverso i quali, allora come ancora oggi, passano i permessi di soggiorno e le richieste d’asilo. Si aprirono le prime case a Badolato, che all’epoca era un borgo medievale abbandonato tanto che al sindaco era venuto in mente di metterlo provocatoriamente in vendita, e che da allora, grazie anche alla curiosità suscitata dalla prima comunità curda che vi si stabilì, è stato riscoperto e ripopolato da un turismo intelligente e non solo stagionale». Secondo la giornalista, la sorprendente reazione della popolazione locale si deve a un sentimento di “restituzione”, dal mare, dei tanti giovani che, negli anni, sono partiti lasciando per sempre le coste calabresi, in cerca di opportunità di lavoro e di sviluppo. La Locride (come molte aree del Sud Italia) aveva conosciuto fino allora un progressivo svuotamento, e l’età media della popolazione andava aumentando sempre di più. L’arrivo di questa nave (e delle altre imbarcazioni che negli anni sono seguite) è stata trasformata dall’amministrazione e dalla popolazione locale in un’incredibile opportunità di sviluppo sociale ed economico.

Quella esperienza ha rappresentato il terreno su cui è poi fiorito anche l’esperimento di Riace: «Più di 6mila i rifugiati accolti negli anni nel paesino dell’alta Locride – scrive il Sole 24 Ore –, 400 quelli presenti in pianta stabile nel centro storico. Sono il 50 per cento della popolazione locale. Il flusso è continuo: i progetti di solidarietà di Riace sono legati al Sistema di protezione dei richiedenti asilo del ministero degli Interni. Sempre connessi alla rinascita del paese. Ed è boom di turismo solidale: i visitatori della costa ionica possono soggiornare nelle case recuperate del borgo, condividendo parte della proprie giornate con gli abitanti del luogo, compresi quelli di 20 etnie diverse».

Un esempio pratico, quello di Riace, che conferma che l’accoglienza non è solo un dovere (innanzitutto) e un problema (come viene presentata spesso da una parte di politici e media), ma anche un’opportunità. Suonerà banale (o meglio “buonista”, come usa dire oggi), ma in realtà è un concetto rivoluzionario. Come lo sono le tre idee alla base del progetto del sindaco Domenico Lucano: «primo, i migranti non sono una maledizione ma una risorsa; secondo, alla valorizzazione della costa jonica non servono gli ecomostri in riva al mare ma il recupero dei vecchi borghi in collina; terzo, i 35 euro al giorno che lo stato elargisce per l’ospitalità di ogni migrante – un costo comunque dimezzato rispetto a quello che comporterebbe la sua permanenza in un centro d’accoglienza – non va usato in modo assistenziale e parassitario, ma va investito per creare un posto di lavoro». Forse si tratta di un’eccezione, di un modello non replicabile, ma potrebbe essere vero il contrario.

Dobbiamo chiederci come mai sui media e nel dibattito politico, in tema di immigrazione a dominare siano sempre la xenofobia oppure il pietismo: o “li si caccia” (ma dove?) o gli si dà assistenza (e poi, comunque, li si trasferisce, perché qui non c’è posto). Invece ci sono altre strade, che forse sembrano più difficili solo perché ci siamo convinti che lo siano. La paura, più che del fallimento, è che politiche come queste abbiano successo. Cosa succederà poi, se la gente si accorge che un altro atteggiamento è possibile nei confronti dei migranti? Lo storytelling delle migrazioni sfuggirebbe di mano a chi tiene in pugno le nostre paure.

Fonte foto: flicrk