In queste ultime settimane abbiamo visto tutti i leader dei principali partiti, con rare eccezioni, provare a posizionarsi su tutti i social network in chiave elettorale. Il più recente e ancora “vergine” da una presenza massiccia di politici italiani era TikTok, su cui nei giorni scorsi hanno aperto un account più o meno tutti, mostrando livelli variabili di goffaggine comunicativa.

La sensazione è che prevalga il principio del “presidio”: se c’è un nuovo spazio comunicativo, va occupato. Poco importa chiedersi in che modo, se servano delle competenze specifiche, se i codici comunicativi di quel nuovo spazio siano compatibili con i messaggi e i codici che si usano in altri contesti. A vedere i primi video postati dai leader politici su TikTok, a molti osservatori è sorta spontanea una domanda: ma nessuno che abbia detto loro che proprio non ci siamo? Possibile che, tra consulenti di comunicazione e social media manager, parenti e amici, nessuno abbia fatto notare loro che i video che stavano postando erano del tutto inadeguati alla finalità (a meno che tale finalità non fosse rendersi ridicoli)?

Si è visto un po’ di tutto: video girati in stazione con una pessima qualità audio, battute autoironiche che non facevano ridere, barzellette già sentite milioni di volte (e altrettanto fallimentari nello strappare una risata), elenchi di battaglie politiche (perse) con l’effetto di ricordare a tutti di quanti insuccessi si è fatto protagonista il partito, ecc. Soprattutto, hanno colpito (ma non sorpreso) i toni paternalistici adottati da tutti i protagonisti di questo “sbarco”. I politici si presentano sulla piattaforma notoriamente più frequentata dagli utenti più giovani, peraltro a pochissimi giorni dal voto del 25 settembre, per spiegare i progetti che hanno in mente per loro e convincerli di quanto essi siano importanti e centrali nel proprio programma politico. Il messaggio che passa, però, è che come capita a chiunque non voglia presentarsi a un appuntamento, l’abbiano fatto controvoglia, all’ultimo minuto, senza adeguata preparazione. Ma non ci casca nessuno: giovani non vuol dire scemi.

Più in generale, ci sembra di poter dire che comportamenti simili sottintendano la convinzione che i social network siano diventati “la piazza cittadina”, e che quindi sia importante esserci sempre e comunque. Di più: che da quegli spazi si possa costruire da zero un interesse, una relazione, un consenso elettorale. A parte il fatto che il concetto di piazza pubblica è molto meno neutro e universale di quanto si possa credere, come spiega bene Viola Stefanello sul Tascabile, una proposta alternativa è che questa percezione vada invece ribaltata. I social non sono il luogo su cui si costruisce il consenso, ma piuttosto il riflesso delle direzioni in cui si sta spostando il sentimento del paese, o per lo meno di una sua parte. Non dimentichiamo infatti che, a dispetto dei numeri celebrati dai vari social network, chi vi partecipa attivamente (mettendo like e postando contenuti di natura politica) è una minoranza degli iscritti, che a sua volta rappresenta solo una parte degli elettori.

Come mostra l’analisi di Edoardo Novelli su Domani, le strategie social dei politici principali non sono cambiate granché negli ultimi anni, e così i risultati in termini di engagement (cioè l’interazione con i contenuti pubblicati non è cambiata moltissimo). Al contempo però sono cambiati molto gli equilibri elettorali fotografati giorno per giorno dai sondaggi. Per fare qualche nome, Salvini è ancora il leader che ha più successo sui social network, e il suo modo di usarli non è variato molto negli ultimi anni, eppure il suo partito non è più il preferito degli italiani. Carlo Calenda resta il politico che posta e interagisce di più, ma il suo apprezzamento è rimasto marginale finché non si è lanciato nell’operazione di accordo/rottura con il Partito Democratico, che gli ha dato molta visibilità. Si potrebbe andare avanti, ma concludiamo facendo notare un’ulteriore prova a supporto di questa ipotesi, ossia l’assenza di Mario Draghi dai social e il suo apprezzamento da parte della maggioranza degli italiani. Una stima costruita fuori dai social network, non dentro, lasciando che questi ultimi continuassero a fare – come scrive Novelli – da «crogiuolo di fusione del discorso politico con sentimenti, umori, futilità».

(Foto di Solen Feyissa su Unsplash)

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