L’Italia non è in grado di attrarre ricercatori. Lo spiega la rivista Nature, che in due diversi articoli dà uno spaccato della situazione della scienza nel nostro Paese. Il problema della ricerca italiana, sembrerebbe, non risiede tanto nella spesso citata “fuga dei cervelli”. Da questo punto di vista rientriamo infatti nella media mondiale. La questione è che le partenze non sono compensate da altrettanti arrivi di studiosi da altre nazioni. Questi infatti, spiega Nature, «preferiscono la Svizzera -il Paese che ha in proporzione il maggior numero di ricercatori stranieri, il 57 per cento-, il Canada, gli Stati Uniti e persino la Spagna e il Brasile. “La spiegazione? -dice Chiara Franzoni del Politecnico di Milano- Salari bassi, un mercato del lavoro che non segue le regole europee, scarsa attenzione al merito, problemi di lingua”. E troppa burocrazia, aggiungono gli interpellati da Nature».
Se quindi ci troviamo a metà classifica tra gli stati “esportatori” di capacità e conoscenze scientifiche, siamo invece molto in basso per quanto riguarda la capacità di attrarne. Uno sbilanciamento che dice anche che pochi vedono nell’Italia un teatro di possibile realizzazione professionale. Ma senza ricerca non si va da nessuna parte. E per capire meglio il quadro conviene dare un’occhiata a come è considerata la scienza in Italia a un livello più generale. Prova a farlo sempre Nature, in un altro articolo ripreso dal Post.it. «La scienza è soggetta a un sospetto irrazionale in molti paesi -si legge-, ma in Italia c’è la percezione che la scienza non abbia alcun peso: una condizione dovuta a decenni di pochi finanziamenti e disprezzo da parte della classe politica. L’Italia investe appena l’1,26 per cento del suo prodotto interno lordo nella ricerca e nello sviluppo (R&D), rispetto alla Germania che investe il 2,82 per cento e alla media del 2 per cento dell’Unione Europea. Nel 2009, in Italia erano impiegate a tempo pieno solo 226mila persone nel settore R&D, mentre in Germania erano 535mila. Il sistema soffre da tempo della mancanza di soluzioni per favorire il merito, cosa che favorisce il clientelismo per ottenere incarichi e promozioni in ambito accademico. I responsabili delle istituzioni di ricerca sono diventati tali spesso per indicazione politica e non per le loro competenze».
Ancora una volta i vecchi vizi italiani sono la causa dei nostri problemi strutturali. Clientelismo, raccomandazioni, familismo, nepotismo, sono le parole che attraversano la nostra storia e le nostre istituzioni, e che infestano le aree più critiche del Paese. In generale, il problema è che qui da noi la comunità scientifica sembra non avere un gran peso, e sono sempre le scelte politiche a prevalere. «In Germania, scrivono, c’è una certa soggezione nei confronti degli scienziati e dei presidenti degli istituti di ricerca da parte dei politici. “Ed è anche difficile immaginare che vi siano tribunali che trattano brutalmente la scienza”». Un esempio, purtroppo tragico, è stato il terremoto a L’Aquila. All’epoca prevalse l’idea (politica) di tranquillizzare la popolazione sul fatto che il pericolo di forti scosse non sussisteva. Se invece avesse prevalso la verità (scientifica) che esse non sono prevedibili, e quindi nessuno era in grado di dare certezze, si sarebbero salvate vite umane. E ora non avremmo sei scienziati della commissione Grandi rischi in carcere.
Il ministro dell’Istruzione e dell’università, Francesco Profumo, ha istituito una Consulta dei presidenti degli enti di ricerca, che entro i primi mesi dell’anno prossimo dovrà prendere una decisione sul riassetto degli istituti di ricerca in Italia. «È cruciale in questo momento -conclude Nature- che i responsabili degli istituti di ricerca siano lasciati in pace per portare a compimento la riforma, e che la scienza non cada vittima -ancora una volta- di politiche poco trasparenti. Costruire il rispetto per la scienza richiede tempo».