di Federico Caruso

Secondo uno studio pubblicato su PLOS One, i ricercatori italiani citano se stessi e i propri colleghi connazionali nei loro paper per raggiungere alcuni indici necessari a ottenere promozioni e avanzamenti di carriera. Questo sembra correlato a una legge introdotta nel 2010 che, come spiega Science Mag, prevede che la carriera nei ruoli accademici sia collegata a tre indicatori di produttività, di cui ogni ricercatore deve raggiungerne almeno due. In campi come la medicina e le scienze naturali, tali parametri includono il numero di pubblicazioni, il numero di citazioni e un indice-H, una misura combinata di produttività e impatto in termini di citazioni. Su Nature si possono leggere alcuni commenti di Alberto Baccini, tra gli autori della ricerca: «L’aumento nelle classifiche di impatto è frutto di un “doping” della citazione collettivo indotto dalle nuove leggi».

La legge 240 del 2010

La norma in questione è la legge 240 del 2010, quando al Ministero dell’istruzione c’era Mariastella Gelmini, ed era volta a stabilire criteri più meritocratici nel campo della ricerca. Già allora la parte relativa alle citazioni (e non solo quella) ricevette delle critiche: «Si pensi solo alla circostanza che, nell’area giuridica, questi indicatori tendono a privilegiare chi abbia prodotto numerosi scritti di semplice elaborazione, rispetto a chi si sia impegnato per anni (come si verifica) nella redazione di prodotti di estrema complessità». L’intento meritocratico era dunque condivisibile, ma le modalità si sono rivelate piuttosto problematiche. A guardare le rappresentazioni grafiche del numero di auto-citazioni e citazioni di connazionali (i due dati sono stati messi assieme per come è fatto il database da cui sono stati tratti), è piuttosto evidente come a partire dal 2010 la curva si impenni in maniera superiore a quella di altri paesi, fino a superare Regno Unito, Giappone e Germania. Anche gli altri stati hanno aumentato le altre citazioni, ma questo secondo i ricercatori è dovuto al fatto che in quei paesi (al contrario dell’Italia) è aumentato il numero di ricerche collaborative internazionali. Baccini definisce una “mascherata bibliometrica” questa strategia adottata in Italia.

Metodologia

Gli autori dello studio hanno usato uno strumento di analisi delle citazioni, SciVal, e hanno guardato ai paper inseriti tra il 2000 e il 2016. Da lì hanno valutato la “inwardness” (che potremmo tradurre come autoreferenzialità in questo caso) delle ricerche pubblicate. Ludo Waltman, un ricercatore nel campo della bibliometria all’Università di Leiden (Olanda), è riuscito a replicare risultati simili utilizzando un diverso database, il che dà ulteriore solidità a questa ricerca. Il consiglio di Baccini per uscire da questa situazione è considerare l’esclusione delle auto-citazioni dalle valutazioni, oppure di abbassare gli indici di citazione e produttività, in modo da riportare il focus sulla qualità della ricerca.