I famosi “segnali” che la politica si è impegnata a dare (mesi fa) al Paese, per ora sembrano più che altro belle parole con cui riempirsi la bocca. Il caso del tetto agli stipendi per i dipendenti del Parlamento è un’ulteriore conferma di come in linea teorica si sia sempre tutti disposti a cercare un accordo per permettere al Paese di ridurre la spesa pubblica, salvo poi scannarsi quando si vanno a toccare le buste paga di alcuni. Gli organi competenti di Camera e Senato (il Comitato per gli affari del personale guidato dalla vicepresidente Marina Sereni per la prima, la “Rappresentanza permanente” diretta dalla vicepresidente Valeria Fedeli per il secondo) stanno tentando di fare approvare alle rispettive aule un testo che recepisca il tetto alle retribuzioni a 240mila euro lordi, così come fissato dal decreto legge emanato a maggio dal governo (i cui limiti abbiamo provato ad analizzare qui).
L’obiettivo è chiudere la questione prima delle ferie di agosto ma, contro questa intenzione, c’è un muro costituito da 25 (venticinque) sindacati che, complessivamente, rappresentano gli interessi di 2.220 dipendenti. Un sindacato ogni 89 persone, non male come rappresentatività. Niente a che vedere, per esempio, con la categoria dei giornalisti, rappresentata da un unico sindacato (la Fnsi, Federazione nazionale stampa italiana) per un settore che conta circa 112mila “tesserini” tra contrattualizzati e collaboratori (indovinate quale sotto-categoria se la passa peggio? Esatto, la seconda). Ma torniamo al Parlamento, dove le cifre che si potrebbero risparmiare (i famosi “segnali”) sono consistenti.
Sono due le linee che si fronteggiano da alcune settimane a proposito della misura con cui recepire la norma del governo. La prima (maggioritaria) dice sì al tetto di 240mila euro, ma al netto degli oneri previdenziali e delle indennità, mentre la seconda, ovviamente minoritaria, sostiene che il tetto debba essere «onnicomprensivo». La differenza non è poca, come riporta il Corriere: «Basti pensare che gli oneri previdenziali valgono da soli più di 71 mila euro l’anno per il segretario generale della Camera e più di 40mila euro per la metà dei consiglieri». Negli ultimi giorni, sembra comunque che si stia concretizzando la possibilità di elaborare una proposta comune da parte di Camera e Senato entro il 21 luglio, prima che il bilancio della Camera arrivi in Aula. Secondo Repubblica, «I bookmaker parlamentari considerano improbabile un’intesa». Che sorpresa.
Vediamo, per capire l’entità della questione, quali sarebbero i tagli previsti. «Oggi, ad esempio, il segretario generale appena nominato percepisce 406 mila euro, con la riforma guadagnerà 300 mila euro (240 mila euro in base al tetto, 60 mila di indennità di funzione). Il suo vice, invece, passerà dagli attuali 305 mila a 270 mila euro. Oltre il tetto della Pa, dunque, ma parecchio più giù delle vette raggiunte dopo alcuni anni di servizio». Capiamo la difficoltà di “limare” un tantino il proprio stile di vita, ma ci sembra che nessuno stia per diventare povero da un giorno all’altro. Barack Obama percepisce uno stipendio di circa 314mila euro l’anno, ed è la carica pubblica retribuita in maniera più generosa negli Stati Uniti, che hanno una popolazione di 314 milioni di abitanti. Perché da noi va tutto alla rovescia? Aspettiamo una risposta, e con essa i fantomatici “segnali”.