La riforma costituzionale, fortemente voluta dal governo per modificare poteri e composizione del Senato e rivedere gli equilibri istituzionali tra Stato e Regioni (ma c’è anche altro nel testo) è arrivata all’ultimo passaggio necessario affinché possa entrare in vigore, quello del referendum confirmativo. La consultazione dovrebbe tenersi a ottobre di quest’anno e non prevede il raggiungimento del quorum affinché il voto sia valido: basta che la maggioranza dei votanti dica “sì”. Un gruppo di costituzionalisti ha firmato un documento in cui si esprimono alcune considerazioni sul testo approvato dal Parlamento. Nonostante tengano a precisare di non essere «fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo», ponendosi in un atteggiamento interlocutorio nei confronti del governo piuttosto che di aperta opposizione, il giudizio finale sulla riforma costituzionale è decisamente negativo. Vediamo quali sono i punti più critici evidenziati dai firmatari.

Come sempre è accaduto in anni recenti, l’elaborazione e approvazione della legge costituzionale non è avvenuta attraverso la ricerca di un accordo a larga maggioranza tra i diversi gruppi parlamentari, bensì cercando di ottenere i “numeri” necessari ad arrivare all’approvazione. Durante l’Assemblea costituente che redasse la Costituzione, si elaborarono meccanismi speciali per l’approvazione di leggi di riforma costituzionale, affinché il Parlamento fosse costretto a raggiungere una larga maggioranza. Era un invito al dialogo e un richiamo al senso di responsabilità nell’intervenire nei delicati equilibri istituzionali. Negli ultimi decenni, governi di diverso colore hanno sempre aggirato queste procedure, puntando unicamente all’approvazione delle leggi sulla base dei normali rapporti di maggioranza parlamentare, evitando (o limitando al minimo) la ricerca di un dialogo con le opposizioni. L’esecutivo presieduto da Matteo Renzi non si è discostato da questa pratica, calcando anzi la mano sulla riforma come punto chiave del suo progetto di governo. Il voto popolare di ottobre sarà presentato agli italiani soprattutto come un “voto di fiducia” al governo, piuttosto che come un’opinione nel merito dei contenuti della riforma costituzionale. Per questo partirà a breve una campagna referendaria, per la quale il Pd ha assunto il consulente di comunicazione Jim Messina, che nel 2012 si occupò della campagna per la rielezione di Barack Obama.

Nel merito delle modifiche proposte dalla legge, ciò che il gruppo di costituzionalisti contesta riguarda principalmente il modo in cui sono stati differenziati i ruoli di Camera e Senato e il riassetto dei rapporti tra Stato e Regioni. Per quanto riguarda il primo aspetto, pur apprezzando l’idea di superare il bicameralismo perfetto che vige oggi in Italia, il Senato appare svuotato dalla riforma costituzionale, non solo dai senatori (che in tutto saranno cento, oggi sono 321), ma anche dal ruolo che gli si vorrebbe dare, ossia di rappresentanza delle istanze regionali: «Esso non avrebbe infatti poteri effettivi nell’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionalistico – si legge nel documento –, né funzioni che ne facciano un valido strumento di concertazione fra Stato e Regioni. In esso non si esprimerebbero le Regioni in quanto tali, ma rappresentanze locali inevitabilmente articolate in base ad appartenenze politico-partitiche (alcuni consiglieri regionali eletti – con modalità rinviate peraltro in parte alla legge ordinaria – anche come senatori, che sommerebbero i due ruoli, e in Senato voterebbero ciascuno secondo scelte individuali)».

Per quanto riguarda le competenze legislative tra Stato e Regioni, la riforma costituzionale propone un sostanziale ritorno al passato, privando le regioni di grandi spazi di iniziativa legislativa. Si indebolisce così il sistema di autonomie che andava costruendosi a partire dalla riforma del titolo V approvata nel 2001 (anch’essa approvata “a colpi di maggioranza”). Piuttosto che individuare un modo per rendere più chiara la ripartizione tra le materie di competenza regionale e quelle di competenza parlamentare, si è deciso di tornare alla situazione precedente alla riforma di quindici anni fa. Non una grande spinta innovativa da parte del governo. Altra questione, che attiene più al modo in cui questa riforma è stata comunicata fin qui, riguarda il fatto che la si voglia far passare come strumento per l’abbattimento dei costi della politica. Questo, osservano i giuristi, è un obiettivo che è giusto e possibile perseguire attraverso leggi ordinarie. Ci sono margini enormi di recupero di spesa nella pubblica amministrazione, e certamente il numero di senatori conta qualcosa. Ma modificare gli equilibri istituzionali per risparmiare non è il modo più corretto per presentare una riforma costituzionale. È sul funzionamento dei meccanismi, al limite, che si può lavorare per trovare fonti di risparmio. E per quello bastano le leggi ordinarie, che non necessitano di larghe maggioranze, di doppie approvazioni parlamentari, di referendum confirmativi, né tantomeno del “consulente americano”.

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