«Credo che sia giusto un sistema con tre aliquote» Irpef, ha dichiarato il ministro dell’Economia Giulio Tremonti parlando all’assemblea di Confartigianato. «È possibile ridurre il nostro sistema fiscale a cinque imposte».
Gli risponde Mario Draghi: «Per ridurre la spesa in modo permanente e credibile non è consigliabile procedere a tagli uniformi in tutte le voci: essi impedirebbero di allocare le risorse dove sono più necessarie, sarebbero difficilmente sostenibili nel medio periodo e penalizzerebbero le amministrazioni più virtuose». In pratica, aggiunge Draghi, un intervento del genere «inciderebbe sulla già debole ripresa dell’economia fino a sottrarle circa due punti di Pil in tre anni».
Interviene Paolo Favilli, docente all’università di Genova ed esperto di sistemi tributari: «In Italia, è in corso un dibattito da fine ‘800, quando quelli contrari alla progressività delle imposte la vedevano come un atto di espropriazione da parte dello Stato. Ricordiamoci che è prevista dalla Costituzione, e che l’Italia è uno dei Paesi più iniqui da questo punto di vista. Un dato su tutti: dal 1994 a oggi si sono spostati otto punti di Pil dalla voce salari a quella profitti. E di questo i mezzi d’informazione non parlano, nonostante i dati siano a disposizione di tutti».
E comunque, «il problema non è più ridurre le tasse ai ricchi, perché dal primo governo Berlusconi a oggi l’Italia è cambiata, e la maggior parte dei cittadini non si riconosce più nelle classi abbienti. Non si può più fare leva su tagli alle tasse che privilegino i redditi alti. E in generale, dopo la quadrupla sconfitta del governo in poche settimane (elezioni amministrative, ballottaggi, referendum ed elezioni in Sicilia) si può dare per superata la supremazia delle nomenclature. Non sono più gli annunci dei personaggi politici a spostare l’opinione pubblica», parola di Marco Revelli, scrittore e professore all’università del Piemonte orientale.
Tremonti assicura che non si tratta certo di una «furbata di questo governo. Dobbiamo correggere da subito dando un segnale di impegno. La situazione è molto meno drammatica di come viene rappresentata».
Un segnale, certo: «In Spagna il primo provvedimento del governo Zapatero fu un taglio del finanziamento pubblico ai partiti. Ma cosa è cambiato qui da noi, da quando io e Gian Antonio Stella abbiamo pubblicato “La casta”?», si chiede Sergio Rizzo, inviato del Corriere della Sera e scrittore. «Nulla. Anzi, in alcuni casi la situazione è peggiorata. Si è tanto parlato di ridurre gli sprechi riorganizzando le province, ma ci sono altri enti mangia-soldi: le regioni. I consiglieri regionali ci costano quanto i parlamentari, ed esistono 74 gruppi di consiglieri composti da una sola persona. Presidenti di se stessi, che hanno diritto a particolari guarentigie quali aumento di stipendio (mille euro nel Lazio), auto blu, possibilità di assumere cinque o sei collaboratori. Uno studio della Uil dice che il mondo della politica ci costa complessivamente 23 miliardi di euro l’anno. Due miliardi solo per Camera, Senato e Quirinale».
«Da anni si parla di ridurre il numero di parlamentari, un’operazione che si potrebbe fare in pochissimo tempo, ma poi non ci si arriva mai», fa notare Maria Cecilia Guerra, professoressa all’università di Modena e Reggio Emilia. «Come se non bastasse, recentemente sono stati creati nuovi sottosegretari, totalmente inutili, solo per dare un posto a determinati soggetti, pagati con i soldi dei cittadini. Solo lo spostamento dell’aliquota più bassa dal 23 al 20 per cento implicherebbe, secondo il Sole 24 Ore, quasi dieci miliardi di mancati introiti fiscali. E se invece, come dicono, quella in arrivo è una riforma a costo zero, dovranno dirci anche chi ci perde, non solo chi ci guadagna. Perché una riforma a tre aliquote, 20-30-40, che trovo totalmente irrealistica, favorirebbe i redditi più alti. In ogni caso, bisogna capire cosa c’è realmente dietro gli slogan. È grave rilanciare una riforma fiscale solo per guadagnare consenso tra gli elettori».
Tornano alla mente le parole del compianto ministro Tommaso Padoa-Schioppa: «In Italia, il denaro di tutti, è considerato denaro di nessuno».