Su questo blog abbiamo sostenuto spesso l’opportunità di dare un taglio netto ai costi della politica, e in particolare al finanziamento pubblico ai partiti (volutamente li chiamiamo così e non “rimborsi elettorali”). Abbiamo argomentato in vario modo la nostra opinione, mettendo in testa a tutte le possibili motivazioni il fatto che se il contributo statale dovrebbe dare la garanzia di indipendenza dei partiti da possibili interessi estranei ai valori e alle finalità che si sono dati, esso ha fallito il suo obiettivo. Non ci vengano poi a dire, sostenevamo, che il “rimborso” serve a far sì che tutti possano fare politica, perché la storia ci ha insegnato tutt’altro. Su questo argomento, lunedì scorso il giornalista Francesco Costa ha scritto un post sul suo blog, sostenendo più o meno le stesse cose, e spronando chi deve a dare altre motivazioni, se proprio insiste sul fatto che il finanziamento pubblico vada mantenuto. Vi anticipiamo che punta tutto sulla trasparenza -saggiamente-, e che prende a esempio il Pd, ma il discorso vale in generale.

[…] Io trovo ci siano diversi buoni argomenti a favore del mantenimento di una qualche forma di finanziamento pubblico ai partiti, in teoria. Trovo però che nella pratica, in Italia, questi argomenti siano stati smentiti dai fatti innumerevoli volte: e quindi penso che chi vuole difendere il finanziamento pubblico ai partiti, e chi lo fa con più vigore, dovrebbe dare risposte più serie o trovarne delle nuove. Per esempio, in Italia dire che il finanziamento pubblico serve a evitare che la politica possa essere corrotta è una barzelletta, così come lo è -conclamatamente- dire che serva a evitare che i ricchi possano imporsi in politica sulla base del loro potere economico. Sappiamo con certezza scientifica che in Italia il finanziamento pubblico ai partiti non ha impedito l’ascesa verticale di un uomo politico ricchissimo, e siamo stati testimoni di un numero considerevole di casi di abusi e di corruzione di/tra politici nazionali e locali. A meno che l’idea non sia che ce ne vogliano ancora di più, di soldi ai partiti, ma la scarterei.

Anche sorvolando -e non dovremmo- sul clamoroso aggiramento della volontà popolare espressa con un referendum, l’altro problema che dovrebbe porsi chi difende il finanziamento pubblico ai partiti è la trasparenza della gestione di quei soldi. Se oggi un retroscena giornalistico può parlare con vaghezza del numero degli assistenti di Rosy Bindi e dello stipendio dei membri di segreteria, è perché quelle informazioni sul Partito democratico -e su tutti gli altri partiti italiani- non sono state diffuse prima. Ci sono delle buoni ragioni per pensare che dovrebbero esserlo, visto che si tratta di soldi ricevuti dallo Stato. Come sono spesi? Che mansioni hanno i quasi 200 dipendenti del Pd? Come saranno spesi i 48 milioni di euro di “rimborsi” elettorali che il Pd riceverà nella prossima legislatura, se la campagna elettorale ne è costata solo 6,5? E i soldi versati al partito dai parlamentari prima e dopo le elezioni?

Ricapitolando: bisogna spiegare perché oggi, in Italia, ha senso tenere in piedi il finanziamento pubblico ai partiti; bisogna spiegare se e perché serve che siano così tanti soldi; bisogna spiegare estesamente come sono spesi questi soldi. Chi difende il principio ma non ha risposte efficaci a queste domande -non è detto che ci siano, soprattutto alla prima- di fatto trasforma ogni sua dichiarazione in un argomento a favore dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, spesso senza rendersene conto. E forse dovrebbe iniziare a chiedersi se, proprio a tutela del principio che difende, ormai travolto dalla melma insieme a ogni sua eventuale qualità positiva, non valga la pena ricominciare da capo: cancellare il finanziamento pubblico ai partiti, darci tutti una regolata per un po’ e poi semmai ricominciare. In un altro modo.