Le riviste pseudo-scientifiche sono in grande espansione, ma hanno un impatto molto modesto sulla qualità della ricerca nel suo complesso. Tempo fa avevamo parlato del proliferare di riviste che si spacciano per pubblicazioni scientifiche, sostenendo di rispettare gli standard di qualità richiesti dalla comunità scientifica (su tutti la peer-review). In realtà, come spiegavamo allora, si tratta di periodici che chiedono agli autori di versare quote anche molto alte affinché i loro articoli siano pubblicati. Ma una volta accettati, la pubblicazione è quasi immediata, e la procedura di revisione e correzione è del tutto evitata. Il timore della comunità scientifica è che queste pratiche (in cui a volte cadono anche gruppi di ricerca seri e ben intenzionati, inconsapevolmente) possano contribuire ad abbassare la qualità e la credibilità della ricerca scientifica in generale. Uno studio, attualmente in fase di pre-stampa e pubblicato sulla piattaforma arXiv, ha rilevato che questi articoli vengono però citati pochissimo all’interno di altri articoli. Ciò vuol dire che sono pochi i ricercatori che li leggono, e ancora meno quelli che scelgono di citarli come fonti nelle loro pubblicazioni. In tal senso, quindi, hanno un impatto quasi nullo sulla ricerca. Ci sono però altri aspetti da considerare.
Metodologia
Come spiega un articolo su Nature, i ricercatori hanno scelto 250 riviste pseudo-scientifiche all’interno di una lista che ne comprende oltre diecimila, e hanno poi selezionato un paper pubblicato nel 2014 da parte di ognuna delle riviste. Usando il motore di ricerca Google Scholar hanno infine controllato a mano quante volte ogni paper era stato citato nei successivi cinque anni dalla pubblicazione.
I risultati
Ciò che hanno trovato è che circa il 60 per cento degli articoli non sono mai stati citati in altri paper e il 38 per cento sono stati citati fino a dieci volte. Meno del 3 per cento ha attratto più di dieci citazioni, e nessuno è andato oltre le 32. Gli autori hanno anche analizzato un campione casuale di mille articoli pubblicati nel 2014 da riviste autorevoli e hanno trovato che questi sono invece citati in media 18 volte, e solo il 9 per cento non è mai stato ripreso.
I commenti
Marr Hodkinson, responsabile di integrità della ricerca presso l’editore open-access Hindawi a Londra, mette in guardia sul fatto che lo studio è realizzato su un campione troppo piccolo: «250 articoli sono pochi considerando il volume stimato di articoli che si sospetta producano le riviste pseudo-scientifiche», ha detto. Effettivamente, nel 2015 un altro studio ha rilevato che la produzione complessiva di tali riviste è cresciuta da circa 53mila articoli nel 2010 a circa 420mila nel 2014. Dal canto nostro, aggiungiamo che la presenza di questi articoli in motori di ricerca come Google Scholar può facilmente trarre in inganno persone al di fuori dell’ambito scientifico. Non è infrequente che giornalisti di testate generaliste, per la fretta di pubblicare o per incompetenza nel valutare l’attendibilità delle fonti, prendano per buoni articoli che nulla hanno di “scientifico”, usandoli poi come spunto per i loro pezzi. “La scienza dice che” è un’espressione spesso usata – oltre che per non prendersi la responsabilità di ciò che seguirà – per convincere il pubblico la veridicità di una notizia, confidando sul fatto che i lettori non abbiano il tempo o gli strumenti per andare a verificare.
(Foto di Elijah O’Donnell su Unsplash)