Nei giorni scorsi, in diversi istituti penitenziari italiani sono scoppiate rivolte anche violente. Il caso più eclatante è quello do Modena, dove sono morte in tutto nove persone, e dove sembrerebbe che all’origine dei disordini ci sia stata la rilevazione di un caso di detenuto trovato positivo al coronavirus. Le proteste sono scoppiate anche a Fuorni (Salerno), Poggioreale (Napoli), Frosinone, Vercelli, Alessandria, Palermo, Bari, Foggia, Pavia, Milano, Roma, Trani, Secondigliano, Rieti e Bologna. A innescare la maggior parte delle rivolte pare siano state le misure restrittive adottate dal governo per arginare il coronavirus nel fine settimana, con cui sono state interrotte le visite dei familiari nelle carceri, sostituite con un maggior numero di videochiamate e telefonate. Il fatto che si sia riscontrato un caso di detenuto positivo fa riflettere se si rileggono le parole di Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, pronunciate quando ancora non era stato diffuso questo dettaglio: «Se il coronavirus arrivasse a contagiare qualche detenuto potrebbe in breve tempo diventare un problema enorme e difficilmente gestibile. Di fronte a restrizioni di ogni forma di comunicazione con i famigliari e con l’esterno, come avevano purtroppo previsto, stanno dunque aumentando le tensioni. Ai detenuti va spiegato quello che sta accadendo affinché possano anche loro esserne pienamente consapevoli».

Metri e centimetri

Secondo Luigi Manconi, che di carceri si è occupato a lungo, questa improvvisa instabilità negli istituti penitenziari viene da lontano. Da tempo infatti, come spesso abbiamo denunciato anche su ZeroNegativo, le carceri italiane soffrono di un grave problema di sovraffollamento. Sentire dunque il governo che impone alle persone di mantenere una distanza di sicurezza di almeno un metro in tutte le occasioni d’incontro genera una comprensibile preoccupazione, quando si è stipati in tanti a condividere pochi metri quadrati. «Entriamo con quel metro in uno dei 198 istituti penitenziari italiani – scriveva ieri Manconi su Repubblica –, percorriamo uno dei corridoi dei diversi bracci, raggi e sezioni ed entriamo in una cella. Nel 50 per cento dei casi, si tratta di locali chiusi da sbarre per venti ore al giorno, con possibilità di apertura per due ore al mattino e due al pomeriggio. In queste celle è possibile trovare due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto e più detenuti. Ne consegue che avremmo molta difficoltà anche solo ad aprire le braccia, tenendo quel metro ai due capi, per verificare se il provvedimento del governo venga rispettato». Mentre ci viene giustamente detto di rimanere a casa il più possibile e di ridurre al minimo i contatti con altre persone, ci sono persone che questa scelta non possono farla. Pensiamo all’angoscia che questo stato di cose sta provocando in noi, e proviamo a immaginare quale stato d’animo può provocare in chi si trova a condividere giornate e nottate forzatamente con altre persone. E attenzione a non cadere nella facile retorica per cui i detenuti “se la sono cercata”. Moltre delle persone che si trovano in carcere sono ancora in attesa di giudizio, e quindi tecnicamente ancora non colpevoli. Inoltre è dovere di ogni civiltà che si definisca tale riservare ai propri detenuti un trattamento dignitoso e rispettoso dei diritti umani. «Se i diritti della persona non vengono tutelati in qualunque segmento dell’organizzazione sociale ne patiremo tutti – conclude Manconi –, e se consentiremo che in un qualunque ambito della vita collettiva si addensi l’epidemia e l’abbrutimento, la vulnerabilità e la decadenza del corpo e dell’anima – in una parola, la perdita della dignità umana – nessuno potrà pensare di salvarsi dall’infezione e dall’orrore».

(Foto di Mitch Lensink su Unsplash)