Mercoledì scorso è morto il lavoratore indiano Satnam Singh, che aveva perso un braccio a causa di un incidente nel campo in cui lavorava a Latina. A parte la brutalità con cui il suo datore di lavoro ha trattato lui e la moglie a seguito dell’incidente, il caso ha riaperto il dibattito sul fatto che in alcune zone d’Italia il lavoro agricolo da parte di stranieri non sia classificabile come tale, ma come schiavitù. Ne ha scritto Marzia Coronati su Doppiozero.

I dettagli di cronaca sono agghiaccianti e tristemente veri. Ho sperato che i resoconti riportati dai media peccassero di eccesso sensazionalistico e ho chiamato il sociologo Marco Omizzolo, che in quelle zone vive e che da oltre venti anni si occupa di migrazioni e caporalato. Purtroppo ha confermato ogni dettaglio, oltre ad aggiungerne altri terrificanti. Lunedì 17 giugno Satnam Singh, il suo braccio amputato adagiato in una cassetta per la frutta e sua moglie sono stati scaricati davanti a casa dai loro datori di lavoro. Poche ore prima Singh, un uomo bracciante di origine indiana, era stato colpito da un macchinario trainato da un trattore, che aveva tranciato il suo braccio destro e schiacciato entrambe le gambe. Invece di chiamare i soccorsi, i responsabili dell’azienda agricola si sono limitati a farli salire su un furgone e a riaccompagnarli a casa, a Borgo Santa Maria. Solo grazie all’intervento dei vicini, l’uomo è stato portato in un ospedale di Roma, dove ha subito numerose operazioni, dall’esito infausto. Così Satnam Singh, 31 anni, è morto mercoledì 19 giugno. Lui e la moglie erano arrivati dall’India tre anni fa con un decreto flussi, e da allora lavoravano nei campi dell’Agro Pontino, rigorosamente in nero.

Ora, l’invito che faccio è quello di fermarci. Non proseguire a leggere notizie di cronaca, politica, sport. Di sospendere qualsiasi giudizio e di riflettere su questa vicenda almeno per i prossimi sessanta minuti. Propongo di fare un passo indietro – forse anche più di uno – e di provare ad attivare un meccanismo di conoscenza e coscienza più profondo.

Prima cruciale considerazione: la morte di Satnam Singh non è una vicenda di cronaca isolata. Associazioni e sindacati in passato hanno documentato decine di casi di braccianti bastonati, colpiti da mazze da baseball perché chiedevano di indossare la mascherina nel periodo di Covid, morti sotto il sole sfiancati dalla fatica, gettati nei fiumi della bonifica. Le denunce sono tante e vanno avanti da molti anni. È così che approdiamo alla seconda cruciale considerazione: la presenza della comunità indiana nell’Agro Pontino risale a oltre quaranta anni fa, lo sanno tutti coloro che hanno attraversato quelle zone almeno una volta: dagli anni ’80 si incrociano uomini in turbante che raggiungono i campi con le loro biciclette, li si vede lavorare chini sulla terra in qualsiasi ora del giorno. Il fenomeno dunque è di lunga data: come è possibile che i passi avanti a livello istituzionale siano così timidi e inefficaci? Oggi la comunità indiana residente nell’Agro Pontino conta circa trentamila unità, oltre la metà è ancora impiegata nelle campagne (tra i quindici e i diciottomila) e più di un terzo lavora in condizioni di sfruttamento: in nero o con un contratto che ha il valore della carta straccia. Una storia di migrazione lunga quaranta anni dovrebbe registrare evoluzioni, eppure le seconde e le terze generazioni di questa comunità faticano ad affrancarsi dal destino di genitori e nonni. Quando non si libera tempo e non si accumula denaro, non ci sono opportunità.

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(Immagine di wirestock su Freepik)

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