Sanremo è finito, finalmente se ne può parlare. Presi come siamo dal mantra della par condicio, ci sentivamo quasi in obbligo di fare finta di nulla (l’abbiamo solo citato in un titolo, ma come pretesto per parlare d’altro). E in effetti non è che sia obbligatorio prestare attenzione al Festival, ma anche ignorarlo del tutto sarebbe un errore. L’evento nazionalpopolare per eccellenza è pur sempre uno specchio del Paese, o almeno di una sua fetta molto grande. Si parla di 13 milioni di televisori puntati sulla finale, uno su due del totale di quelli accesi. Già questo è un dato importante. Gli ascolti tornano su, proprio nell’edizione in cui è stato universalmente riconosciuto che a essere cresciuto è un altro fattore spesso tenuto volutamente a livelli da baraccone: la qualità. Belle canzoni, ospiti prestigiosi e nessuna caduta di stile o volgarità. Per una volta ciò che si è visto sul palco tra una canzone e l’altra era più collegato a ciò che si può trovare negli inserti culturali dei quotidiani, più che ai contenuti dei settimanali di gossip. È stato un festival elegante, mai ostaggio dello sfarzo. E che si è ripagato con gli introiti pubblicitari, come ha tenuto a comunicare la Rai. Il “tesoretto” del canone non è stato quindi devoluto a ciò che, in effetti, non è un servizio pubblico ma una competizione canora, ed è giusto che sia così.

Ma al di là delle valutazioni complessive, alcuni elementi ci hanno colpito positivamente per la ventata di novità che hanno portato. Innanzitutto, il linguaggio dei segni (Lis) sulla canzone di Daniele Silvestri. Il cantautore romano è stato affiancato sul palco da Renato Vicini, che ha esposto il testo del brano “A bocca chiusa” durante l’esibizione. Sul finale, lo stesso Silvestri e l’orchestra l’hanno seguito, in un grande momento di condivisione collettiva di un momento che per definizione dovrebbe escludere chi ha problemi di udito. Un’iniziativa che vede un filo di continuità col mondo dello sport, come racconta Claudio Arrigoni sul blog InVisibili: «Il rugby scavalca il calcio. Prima della partita del Sei nazioni fra Italia e Galles (sabato 23 febbraio allo stadio Olimpico di Roma) quindici bambini dell’Isiss (Istituto statale di istruzione specializzata per sordi) accompagneranno gli Azzurri durante l’inno nazionale italiano, interpretandolo proprio nella lingua dei segni». E in effetti sono molti i rappresentanti dello sport italiano invitati, tra cui il pilone della nazionale italiana rugby Martin Castrogiovanni. Insomma, anni luce dalla chiacchieratissima Federica Pellegrini del 2012, per fare un esempio.

E poi c’è stato il monologo di Claudio Bisio. In tempi di par condicio (quella vera, per le elezioni che si terranno il prossimo fine settimana), per gli attori comici la sfida si fa più dura. La satira senza nomi e cognomi è quella più difficile. Il bravo Maurizio Crozza ha scelto la strada opposta: nominarli tutti per non scontentare nessuno. Il risultato, al di là delle proteste organizzate ad arte, è stato tiepido. Bisio ha scelto invece di aggirare l’ostacolo. L’allusione ha avuto il risultato efficace di non risparmiare nessuno, ma in più l’attore ligure ha scelto un cambio di prospettiva che gli ha permesso di mettere in scena un piccolo coup de théâtre. L’inizio sembrava un refrain già sentito: «Finché ci sono loro -tutti loro– questo Paese non cambierà mai». E giù applausi come se piovesse, ché sembrava fosse arrivato (a 8 minuti dall’inizio del monologo) il momento di sparare a zero sulla classe politica. «Dicono una cosa e ne fanno un’altra -ha ripreso-. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili». Il finale sembrava già scritto, e invece: «Ma chi parlava dei politici? Io quando dicevo “tutti a casa”, non stavo parlando degli eletti, ma degli elettori. Stavo parlando di noi, degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda. Siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici -ma proprio bene bene-, è impressionante come ci assomigliano». Il resto lo lasciamo al piacere della vostra visione, ma intanto ci portiamo a casa questa piccolo “sgambetto” che ci costringe a pensare. Anche se, a nostra discolpa, dobbiamo riconoscere che la legge elettorale -che tutti volevano cambiare e invece è ancora lì- non ci favorisce nella scelta.