«Lo stato di calamità è interno alla classe dirigente, che non ha capito che il territorio va protetto». «Io non credo alla parola imprevedibilità». Queste frasi, pesanti, sono state pronunciate da due sardi ospiti della puntata di Tutta la città ne parla andata in onda su Radio3 martedì 19 novembre (riascoltabile qui), rispettivamente Giacomo Mameli e Giorgio Todde. Si tratta di persone che vivono quotidianamente la propria regione, che ne conoscono la storia e ne seguono l’attualità. Tante volte su questo blog ci siamo scagliati contro i mancati interventi di prevenzione che hanno trasformato delle calamità naturali in tragedie nel nostro Paese. È accaduto ancora, e non ce la sentiamo di fare finta di niente, di dare per scontato che, si sa, il disastro era evitabile, ma ormai concentriamoci sull’emergenza.
Ovvio, ora c’è da cercare i dispersi, fare un bilancio dei danni, rimuovere le macerie e pensare a ricostruire. Ma non riusciamo a rassegnarci all’idea che nel nostro Paese ci vogliano sempre cinque minuti ad annunciare lo sblocco dei fondi per intervenire sulle emergenze -dopo il disastro-, mentre quando si parla di prevenzione -prima delle frane e degli uragani- si conservi sempre il massimo rigore nella spesa. I documenti dei geologi sono pronti e disponibili, ma i loro studi sono visti come un intralcio allo sviluppo, come previsioni allarmiste ed esagerate. A Olbia, secondo quanto emerso nel corso della trasmissione, anni fa il sindaco aveva chiesto al ministero competente di poter investire 10 milioni di euro del proprio bilancio per procedere a interventi di messa in sicurezza dal rischio idrogeologico, ma la risposta è stata negativa: nessuna deroga al patto di stabilità. Oggi che si piangono i morti, di deroga si è parlato subito.
La necessità di interventi di messa in sicurezza è peraltro conseguenza di un altro fattore, ossia la perdita di memoria storica che si è verificata in quei luoghi. «Un tempo le città si costruivano in alto, lontano dalle zone a più grave rischio in caso di esondazione dei fiumi -ha spiegato Rita Lai, vicepresidente dell’associazione 22 Ottobre, fondata dopo l’alluvione di Capoterra (Cagliari) del 2008-. Poi è arrivato il boom edilizio degli anni ’80 e si è iniziato a costruire ovunque». I disastri di oggi sono figli della miopia di ieri. Lo conferma anche Todde che, nel rifiutare l’imprevedibilità addotta come sempre per giustificare la tragedia, spiega che «le alluvioni in Sardegna avvengono quasi sempre negli stessi periodi dell’anno e sempre nelle stesse zone. A Villagrande e Capoterra sono riapparse nuove case negli stessi luoghi in cui sono avvenuti i disastri di pochi anni fa. Le richieste dei sindaci vanno nella direzione di un allentamento dei vincoli idrogeologici. Lo stesso piano paesaggistico presentato in questi giorni dal governatore della regione Ugo Cappellacci prevede una riduzione di ogni vincolo». Vi è poi un problema burocratico, ha continuato Lai: «Talvolta i fondi per azioni di mitigazione del rischio sono anche disponibili, ma c’è un problema nei tempi di attuazione: troppi soggetti devono dare la propria autorizzazione tra il momento in cui si iniziano a scrivere progetti a quello in cui le opere entrano in funzione». Insomma, è sicuramente vero che la forza di quest’ultima tempesta è stata spaventosa, ma chiunque si appelli a questo fatto come causa principale dovrebbe forse fare una piccola riflessione in merito a ciò che si poteva fare per limitare i danni e le vittime, e si è scelto deliberatamente di non fare nel corso di anni.