Il mondo dell’alta moda poggia su bassi stipendi. Un’inchiesta del New York Times, tradotta in italiano sull’ultimo numero di Internazionale, riprende un tema noto a livello globale, ma di cui fa una certa impressione leggere a proposito dell’Italia, dove si suppone che il percorso per i diritti dei lavoratori sia più avanzato rispetto ai paesi dove si concentra la produzione di abiti. I committenti delle sarte che lavorano da casa nel Sud Italia non sono i marchi abituati a fare produzioni su larga scala, bensì le firme dell’alta moda.

Quelli che vendono cappotti e vestiti a centinaia o migliaia di euro, ma che ottengono per pochi spiccioli da donne laboriose del Salento. Le autrici dell’articolo parlano di una di queste “operaie”: «Sta cucendo con cura un elegante cappotto di lana, di quelli che a ottobre, quando arriveranno nei negozi per la collezione autunno-inverno di Max Mara, costeranno tra gli 800 e i duemila euro. Ma la sarta, che ha chiesto di restare anonima per timore di perdere la sua fonte di reddito, viene pagata dall’azienda solo un euro per ogni metro di stoffa che cuce. “Mi ci vuole circa un’ora per cucire un metro, perciò circa quattro ore per finire un cappotto”, dice la donna, che lavora senza contratto né contributi ed è pagata in contanti ogni mese. “Perciò cerco di farne due al giorno”. Il lavoro “in nero” che svolge nel suo appartamento le viene affidato da un’azienda locale che produce capi di abbigliamento per alcune delle più famose firme della moda, tra cui Louis Vuitton e Fendi. Il massimo che ha mai guadagnato, dice, è stato 24 euro per un cappotto».

La commissione del lavoro, ovviamente, non è mai diretta da parte delle grandi firme. Anzi, a volte i passaggi che portano alle lavoratrici che realizzeranno il capo d’abbigliamento sono molti. Questo rende complicato individuare chi sia responsabile di condizioni di lavoro vicine allo sfruttamento. «“I grandi marchi commissionano il lavoro a un primo appaltatore, che poi lo distribuisce a subappaltatori, i quali a loro volta, a causa dei tempi molto stretti e dei prezzi ridotti, passano una parte della produzione a fabbriche più piccole”, dice Deborah Lucchetti, di Abiti puliti (http://www.abitipuliti.org). “Questo rende difficile l’attribuzione delle responsabilità. Sappiamo che il lavoro in casa esiste. Ma è così ben nascosto che certe aziende non immaginano neanche che i loro prodotti sono realizzati da lavoratori irregolari fuori dalle fabbriche con cui hanno un contratto. Ma queste cose le sanno tutti. E qualche marchio dovrà pur saperlo”».

Il problema italiano è acuito dal fatto che non esistono leggi sul salario minimo, inoltre la sindacalizzazione in questo settore è molto bassa, quindi la contrattazione avviene al ribasso e lascia le lavoratrici senza possibilità di strappare condizioni di lavoro dignitose. «In Italia non esiste un salario minimo – scrive il New York Times–, ma molti sindacati e aziende di consulenza considerano ragionevole una cifra che va dai 5 ai 7 euro all’ora. In casi estremamente rari un operaio specializzato può guadagnare dagli 8 ai 10 euro all’ora. Ma chi lavora in casa viene pagato molto meno, indipendentemente dal fatto che lavori il cuoio o ricami».

Il fascino del “made in Italy” si riduce a una pratica che ha poco a che fare col mito che gli si è costruito intorno. Gli alti prezzi dei vestiti dovrebbero riflettere anche un’etica del lavoro che prevede la tutela delle condizioni dei lavoratori, a partire dal salario. Ma la difficile congiuntura economica ha colpito anche questo settore, che ha visto molti produttori spostare le produzioni all’estero. Nel settore del lusso, però, il fatto di produrre in Italia ha ancora un peso. «Le secolari fondamenta della leggenda del “made in Italy”, costruite sulle tante piccole e medie imprese che formano la spina dorsale della quarta economia europea, negli ultimi anni hanno cominciato a traballare sotto il peso della burocrazia, dell’aumento dei costi e della disoccupazione. Le aziende del nord, dove in genere ci sono più opportunità di lavoro e stipendi più alti, hanno sofferto meno di quelle del sud, colpite dalla concorrenza della manodopera a basso costo che ha spinto molti imprenditori a spostare la produzione all’estero. Pochi settori contano sul prestigio della produzione italiana quanto quello del lusso, che è da tempo il cardine della crescita economica del paese. L’industria del lusso è responsabile del 5 per cento del prodotto interno lordo del paese e, secondo i dati dell’università Bocconi e di Altagamma, la fondazione che riunisce le eccellenze italiane, nel 2017 ha dato lavoro direttamente o indirettamente a mezzo milione di persone. […] Secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica (Istat), nel 2015 in Italia 3,7 milioni di persone hanno lavorato senza contratto, in tutti i settori. Sempre secondo l’Istat, nel 2017 solo 7.216 delle persone che lavoravano in casa, 3.647 delle quali nel settore manifatturiero, avevano un contratto regolare».

(Foto di Roman Spiridonov su Unsplash)