«Uno sciopero così non è da Paese civile». «24 ore di caos nelle principali città italiane». «Inferno in metro. Grazie allo sciopero». Questi alcuni dei titoli comparsi ieri sulle pagine dei giornali italiani in seguito allo sciopero dei trasporti pubblici messo in atto martedì 2 ottobre. «Ieri a Milano c’è stato un corto circuito -ha scritto Giangiacomo Schiavi sul Corriere-. Un’isteria collettiva scatenata da un freno a mano tirato sulla linea Uno del metrò. Tutto bloccato, a pochi minuti dal secondo tempo dello sciopero. I passeggeri che dovevano scendere dal treno si sono rifiutati di farlo. Quelli che dovevano allontanarsi dalla banchina hanno ignorato l’invito dell’Atm. Il timore di perdere l’ultimo metrò ha fatto scattare un’insubordinazione».

Così come la nota saga diretta da Steven Spielberg è riuscita a rendere entusiasmante la figura, altrimenti più sobriamente scientifica, dell’archeologo, martedì i lavoratori milanesi hanno visto arricchirsi di suspense l’atto per definizione più intriso di routine, cioè andare in ufficio la mattina. Difficile non pensare ai passaggi segreti del Tempio maledetto vedendo gli impavidi lavoratori strisciare sotto le saracinesche in chiusura, pur di saltare sull’ultimo treno in partenza. Viene alla mente anche l’universo tragicomico del ragionier Fantozzi, dove il timore verso il padrone “Granfarabutt” di turno porta puntualmente i personaggi a calpestarsi a vicenda, pur di portare a termine i propri gesti di estrema prostrazione.

Ma ridurre al caso-limite milanese lo sciopero di martedì sarebbe un errore. Lo sciopero è uno strumento della democrazia, menzionato anche dalla Costituzione (articolo 40). È normale che un’azione come quella in esame abbia arrecato disagi tra gli utenti, sarebbe una notizia il contrario. Certo, imprevisti di queste dimensioni non erano stati presi in considerazione, ed è sicuramente il caso di rivedere tempi e modalità di attuazione di azioni di questo tipo. Va detto anche che in Italia lo sciopero dei trasporti è sempre regolato: il sindacato comunica in anticipo le fasce orarie di sospensione del servizio, e le persone hanno le informazioni per trovare soluzioni alternative, se ce ne sono. In altri Paesi (civili almeno quanto il nostro) è possibile che si sappia quando comincia l’agitazione, ma non quando finisce.

La contrapposizione che si viene a creare tra lavoratori in sciopero e lavoratori in corsa verso l’ufficio riflette una globale lacerazione tra gli italiani, per cui questi due sottogruppi non si percepiscono come parte di un gruppo più grande, ossia quello dei lavoratori, in lotta per ottenere gli stessi diritti, in contesti diversi. Prevale il principio corporativo, tipico da sempre dell’Italia, che ci impedisce di sentirci uniti, e ci porta invece a vedere recinti e paletti dove non ci sono. Chiudiamo con un inciso da un articolo di Davide Stasi per La voce del ribelle, ripubblicato dal sito ComeDonChisciotte, che enuncia con chiarezza il concetto: «Divide et impera è la principale chiave di lettura. Furono i nostri avi latini a inventare il concetto e il motto che l’esprime, declinato poi con precisione scientifica da quello che è forse il più sincero italiano mai esistito nell’affrontare la politica e i suoi meccanismi, Niccolò Machiavelli. E così, comunemente, il problema dei lavoratori Fiat non è un problema dei lavoratori sardi. La vertenza sull’Ilva di Taranto è affare di chi ne è coinvolto, quindi non è un problema dei precari della scuola o della sanità. Allo stesso modo, i tagli presso gli enti locali di tutte le risorse assistenziali riguarda chi ha un anziano non autosufficiente o un diversamente abile in casa, quindi non è il problema di chi si trova la linea del tram o del bus soppressa, causa tagli al bilancio. E così via.

L’Italia è la terra delle contrapposizioni e delle corporazioni, degli orticelli recintati e in costante e radicale concorrenza reciproca. È il paese dove le problematiche si mettono in classifica, e l’ordine decrescente è deciso dalla pressione (economica, ricattatoria, politica o tutte queste cose assieme) che il singolo raggruppamento è in grado di esercitare sui decisori. Uno scenario dove il denominatore comune non si trova mai, dove non è mai possibile che, a una voce, si senta una riflessione finalmente unanime ed esatta sul fatto che è l’intero impianto, il sistema in sé a essere sbagliato e a generare i diversi disagi circoscritti. Quando ci si avvicina a un punto del genere, c’è sempre qualcuno che alza la mano e solleva l’eccezione che divide, il cavillo che disgiunge e demotiva qualunque istinto allo sviluppo di un approccio trasversale e solidale ai problemi».