Quello dell’istruzione è un capitolo sempre cruciale per un governo che si insedia. In Italia da tempo si parla dell’importanza di attuare un sistema di riforme complessivo e organico che migliori e modernizzi tutto il settore. Spesso però le promesse non vengono mantenute, oppure ciò che viene fatto ha un impatto nullo o controproducente sulla realtà delle cose. Un articolo di Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Giovanni Agnelli, per Lavoce.info, prova a delineare quattro priorità su cui il nuovo esecutivo dovrebbe concentrare i suoi sforzi. Lo riportiamo integralmente.

L’importanza di scuola e università

L’istruzione è spesso in primo piano negli impegni che precedono la formazione di un governo. La crisi attuale non fa eccezione: a parole, tutti riconoscono l’importanza di scuola e università per il futuro dell’Italia. Ed è così, perché l’investimento in formazione ha un impatto davvero rilevante: la letteratura economica è sostanzialmente concorde nell’affermare che il livello di capitale umano – misurato dagli anni di scolarità o, ancor meglio, dal livello degli apprendimenti degli studenti – è una delle determinanti della crescita economica (vedi, per esempio, Eric A. Hanushek, and Ludger Woessmann, 2015). Non solo: le persone più istruite hanno una speranza di vita più elevata, conducono una vita più sana, sono più attivi nella società, più informati sulle istituzioni, più aperti nei confronti degli altri; in una parola, sono migliori cittadini.

Eppure, solo occasionalmente, negli ultimi 20 anni, i governi sono passati dalle parole ai fatti, con politiche di riforma articolate per migliorare la qualità del nostro sistema scolastico e universitario, con i suoi profondi divari interni e ritardi rispetto agli altri paesi europei. Molti si sono accontentati del piccolo cabotaggio; i pochi che ci hanno provato in modo energico non hanno ottenuto i risultati sperati: le riforme Berlinguer, Gelmini e Renzi sono gli esempi più eclatanti. Certo, una riforma energica non  è necessariamente anche giusta; in particolare, negli ultimi due casi molte proposte erano sbagliate. Al di là del giudizio di merito, è però vero che in Italia i tentativi di riforma dell’istruzione si scontrano con fortissime resistenze da parte del mondo della scuola e dell’università. Come suggeriscono gli studi politologici, i docenti sono un corpo sociale piuttosto conservatore, molto focalizzato sui propri interessi e al tempo stesso capace di esercitare un’enorme pressione sulla politica: in Italia, il solo personale della scuola statale supera il milione e influenza le famiglie di circa 8 milioni di studenti. Soltanto esecutivi forti e determinati possono pensare di sfidare i docenti e portare a casa riforme. Potrebbe non essere il caso del prossimo governo, tenendo anche conto che per M5s e Pd gli insegnanti rappresentano storicamente parti importanti del loro elettorato.

Quattro temi per il governo M5s-Pd

In attesa di conoscere il programma, su quali temi il futuro governo dovrebbe agire? Ne propongo tre per la scuola e uno per l’università.

Selezione e formazione dei docenti. Come spiegato su queste colonne, il meccanismo di reclutamento è oggi fallimentare: nel prossimo anno, in tante scuole di molte regioni mancheranno i docenti di ruolo di diverse materie (scientifiche, ma non solo) e serviranno quasi 200 mila supplenti annuali. I governi precedenti hanno quasi sempre provato a rispondere con grandi sanatorie, assumendo insegnanti senza alcuna valutazione delle loro capacità. Ma neppure le sanatorie sono riuscite a risolvere il problema, impoverendo in cambio la qualità. Per attenuare la distanza fra le caratteristiche della domanda delle scuole e dell’offerta dei docenti, ed evitare un ulteriore degrado qualitativo, occorrerebbe un meccanismo di accesso continuo alla professione (come concorsi regolari), una valutazione stringente delle competenze disciplinari e soprattutto didattiche dei nuovi assunti (e magari anche di quelli in ruolo) e una voce in capitolo dei singoli istituti nella scelta di chi serve loro davvero.

Carriera degli insegnanti. Entrati in ruolo, i docenti non hanno alcuna vera progressione salariale (solo sei scatti per anzianità) e di carriera, caso unico nel comparto pubblico. Senza un riconoscimento della qualità del lavoro, si attira nella professione chi è meno disponibile a impegnarsi e assumere responsabilità organizzative. Nei giorni scorsi, esponenti del Pd e del M5s hanno invocato aumenti di stipendio per gli insegnanti: distribuiti a pioggia avrebbero poco effetto; scatti di carriera legati al merito e a un orario di lavoro più ampio potrebbero invece rappresentare un incentivo per i buoni laureati a entrare nella scuola.

Tempo prolungato. Sappiamo che più ore trascorse a scuola (non solo a lezione) rappresentano un antidoto all’abbandono, purtroppo di nuovo in crescita. Permettono, inoltre, di fare didattica innovativa e sostenere chi ha maggiori difficoltà. In Italia, la scuola al pomeriggio esiste solo alla primaria, tipicamente al Nord: andrebbe estesa almeno alla media e su tutto il territorio nazionale.

L’università italiana, molto più che la scuola, soffre di carenza di risorse: spendiamo appena l’1 per cento del Pil nell’istruzione terziaria (molto sotto la media Ocse). Così è difficile aumentare significativamente la quota di laureati, garantendo una didattica di qualità. Un segmento dell’offerta universitaria che manca quasi del tutto nel nostro paese, a differenza del resto dell’Europa continentale, è quello professionalizzante, che garantirebbe sbocchi occupazionali agli studenti meno interessati allo studio accademico e aiuterebbe molte piccole e medie imprese a fare un salto in avanti. Atenei come il Politecnico di Torino stanno avviando la sperimentazione di lauree a indirizzo professionale, sfruttando le limitate possibilità del decreto Fedeli, in collaborazione con le aziende. La creazione di una filiera professionale degna di questo nome avrebbe un impatto positivo sulla produttività del nostro sistema.

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