Prendiamo spunto dalla riflessione sul sistema scolastico italiano di Marco Rossi Doria, sottosegretario all’Istruzione nel governo Monti, pubblicata il 14 gennaio su La Stampa, e da un articolo apparso ieri su The Atlantic, per mettere in luce l’importanza di valorizzare il capitolo dell’istruzione pubblica oggi nel nostro Paese. Il primo si esprime sullo stato dell’istruzione, mentre il secondo offre un esempio delle punte di eccellenza che può esprimere l’Italia quando le idee sono libere di prendere forma e sostanza. Il tema sembra essere ai margini del dibattito elettorale, ma invece merita un posto di primo piano, perché dalle crisi si esce investendo nella scuola, pubblica e gratuita per tutti.

Prima due grandi meriti del nostro sistema scolastico messi in evidenza da Rossi Doria: «Noi integriamo ogni giorno nelle nostre classi, in modo sereno e serio, 200mila bambini e ragazzi con disabilità. Nessun altro Paese lo fa da così tanti anni. E oggi finalmente capita che altre grandi nazioni ci guardino con ammirazione, pensando di volerci imitare. Tanto siamo avanti che una delegazione del governo francese è venuta e mi ha chiesto: come fate a fare una cosa così importante, i primi tra i paesi Ocse, da 30 anni? Accogliamo, poi, 750mila bambini e ragazzi stranieri. Parlano italiano ormai come prima lingua, lavorano per raggiungere gli obiettivi curricolari in tutte le discipline insieme ai nostri figli; diventeranno -presto, si spera- i loro concittadini a tutti gli effetti. Un signore che ha un banco in un mercato di Roma, che si chiama Mustafà, mi ha detto: “Il vero porto che mi ha accolto sono state le maestre dei miei tre figli nelle vostre belle scuole”». E questi sono dati di fatto. Aggiungiamo anche l’esortazione, condivisibile, del sottosegretario (ed ex maestro elementare): «Ora è assolutamente vitale riprendere una seria politica di investimento. Ci vuole una stagione capace di produrre un’inversione di tendenza, un cambio di rotta. Bisogna, infatti, passare dalla logica della spesa a quella dell’investimento».

Dall’altra parte dell’oceano, per l’appunto dall’Atlantic, arriva la notizia che un modello italiano di didattica pre-scolastica, il metodo “Reggio Emilia”, è stato ripreso e imitato fino a diventare quello preferito dalle élite americane per i propri bambini. La sua particolarità è di porre l’accento sull’arte e sulla bellezza, coinvolgendo i bambini ed esortandoli a sviluppare propri progetti seguendo gli argomenti che realmente li affascinano, e non ciò che “dovrebbero” imparare. Paradossale che un metodo nato nell’Emilia del secondo dopoguerra grazie al contributo volontario dei sopravvissuti di Villa Cella, che si sono rimboccati le maniche e hanno fisicamente costruito una scuola a partire dalle macerie, sia diventato il più gettonato dai bambini della upper class. Loris Malaguzzi, un giovane insegnante dell’area impegnato in studi sulla psicologia infantile post-guerra, è il padre di questo metodo. L’interesse da parte di insegnanti stranieri arriva negli anni ’80, e oggi il metodo è utilizzato in tutto il mondo da docenti con una preparazione specifica. Ma il costo necessario ad accreditarsi fa sì che siano le scuole private più ricche a mandare i propri insegnanti a studiare in Italia. Eppure, come sottolinea l’articolo, «se ci fosse un modo per applicare in maniera diffusa la “Reggio philosophy” all’insegnamento nella scuola pubblica, abbassando alcuni costi a essa associati, la sua enfasi sulla bellezza e sulla creatività potrebbero avere effetti meravigliosi per i bambini svantaggiati».