Lunedì 27 luglio Mina Welby e Marco Cappato sono stati assolti dall’accusa di avere aiutato e istigato al suicidio Davide Trentini, un uomo di 53 anni malato di sclerosi multipla. Bisognerà attendere che il provvedimento sia depositato per conoscere le motivazioni della sentenza, ma alcune considerazioni si possono già fare. Quella di Cappato è infatti una strategia di disobbedienza civile che prosegue da diversi anni, e che punta a indurre il Parlamento a legiferare sulla materia. «Non pensiamo adesso che la legge sull’eutanasia sia inutile perchè tanto arrivano le assoluzioni – aveva detto Cappato subito dopo la sentenza –: la legge serve per garantire un diritto a tutti i cittadini e serve ad eliminare una potenziale discriminazione. Non possiamo più accettare che ci sia una discriminazione sulla base della tecnica con cui sei tenuto in vita. L’azione di disobbedienza civile continuerà fino a quando il Parlamento non si sarà assunto la responsabilità che fino ad ora non si è assunto». Il pubblico ministero Marco Mandi, nel chiedere una condanna a 3 anni e 4 mesi per Welby e Cappato, aveva aggiunto in aula, prima che la Corte si ritirasse in camera di consiglio: «Chiedo la condanna con tutte le attenuanti generiche e ai minimi di legge. Il reato di aiuto al suicidio sussiste, ma credo ai loro nobili intenti. È stato compiuto un atto nell’interesse di Davide Trentini, a cui mancano i presupposti che lo rendano lecito. Colpevoli sì, ma meritevoli di alcune attenuanti che in coscienza non mi sento di negare». In attesa che il Parlamento si prenda la briga e la responsabilità di elaborare una legge su questo tema, sono le sentenze a dovere stabilire come comportarsi in questi casi, attualmente regolati dall’articolo 580 del codice penale (che, come spiega il Post, equipara l’assistenza al suicidio all’istigazione al suicidio).
I precedenti
Una sentenza del 2019 aveva già assolto Cappato per un episodio simile. Cappato aveva accompagnato in una clinica svizzera in cui si pratica il suicidio assistito Fabiano Antoniani, noto come “dj Fabo”, cieco e tetraplegico a seguito di un incidente. Allora si trattava di una decisione della Corte Costituzionale, che ha il potere di stabilire come vanno interpretate certe norme in presenza di ambiguità o vuoti legislativi. La Corte aveva «stabilito che in Italia si può aiutare una persona a morire senza rischiare di finire in carcere, se quella persona ha una patologia irreversibile, se la patologia irreversibile le provoca sofferenze fisiche o anche solamente psicologiche per lei intollerabili, se la persona è pienamente capace di decidere liberamente e consapevolmente, e se è tenuta in vita da trattamenti medici di sostegno vitale».
Cosa cambia questa sentenza
La differenza tra le due sentenze sta nel fatto che Antoniani era sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, quali ventilazione e alimentazione artificiali, mentre Trentini non dipendeva da macchinari. La sua sopravvivenza dipendeva da terapie farmacologiche contro i dolori e gli spasmi e da una meccanica per l’evacuazione delle feci. Una circostanza che avrebbe potuto costituire un discrimine per la Corte, che invece con la sua sentenza ha ampliato la varietà di contesti per cui l’accompagnamento al suicidio non è punito. «Davide Trentini non aveva sostegni vitali, cioè macchine – ha spiegato Cappato –. Ma probabilmente i giudici hanno interpretato in senso più ampio l’idea di sostegno vitale includendovi, come dicevano noi, anche terapie farmacologiche e pratiche manuali necessarie alla sopravvivenza». Resta il fatto che, nella sentenza dell’anno scorso, la Corte Costituzionale aveva precisato che la sua decisione si rendeva necessaria “in attesa di un indispensabile intervento del legislatore”. Un’indicazione verso cui il Parlamento, almeno fin qui, non ha prestato molta attenzione.
(Foto di Bill Oxford su Unsplash)