Se non fosse stato per l’aggressione avvenuta a Genova nella notte del 25 gennaio da parte di quattro persone ai danni di una coppia di clochard, quest’anno forse l’inverno sarebbe trascorso senza che si parlasse di loro, dei senza tetto. Complice una stagione mite, che si avvia ormai verso la fine, quest’anno non si sono sentite le solite tragiche notizie sugli abitanti della strada morti assiderati nelle fredde nottate milanesi. Sono quindi ancora tutti lì, a vivere tra i cartoni per ripararsi dal freddo (che comunque c’è, assieme all’umidità), ormai fanno parte del paesaggio urbano tanto che il nostro occhio li codifica quasi con indifferenza, come farebbe con un qualsiasi altro elemento della città: una panchina, un semaforo. Ci pensa il sito lavoce.info a dare un po’ di numeri sul fenomeno degli “invisibili”, dopo aver fatto rilevare in apertura uno dei tanti paradossi italiani: «Siamo il paese con più case di proprietà ma il numero dei senzatetto è in costante aumento».
Numeri, si diceva, che sono poi uno dei problemi da affrontare. Si sa poco dei senza tetto perché sono ancora poche le statistiche che li riguardano e i censimenti sono parziali, soprattutto in Italia. C’è da dire che il trend espansivo cui si accennava poc’anzi non riguarda solo l’Italia ma l’Europa in generale, con poche eccezioni: «Tra il 2008 e il 2011, in tutti i paesi europei ad eccezione di Finlandia, Paesi Bassi e Danimarca, il numero di senza dimora è aumentato significativamente». Milano negli ultimi anni ha realizzato due “fotografie” sulle condizioni dei senza tetto all’interno della città, nel 2008 e nel 2013, rilevando un aumento complessivo del fenomeno del 69 per cento (si è passati da 1.560 a 2.637). La nota positiva riguarda le iniziative di accoglienza, che hanno permesso di abbassare la percentuale di coloro che, oltre a non avere una casa dove vivere, dormono in strada. Questi ultimi erano 408 nel 2008 (pari al 26 per cento del totale), mentre oggi sono 531 (20 per cento).
Per quanto riguarda le caratteristiche di questa piccola comunità, va del tutto ridimensionato il luogo comune del clochard che “sceglie” la strada perché rifiuta il sistema, il lavoro, le logiche opprimenti del sistema capitalista, ecc. È più vero il contrario, ossia che è il sistema ad averli rifiutati, ad aver tolto loro un lavoro, ad averli relegati al ruolo di scarto. Il problema principale degli intervistati è risultato infatti il lavoro: perché non c’è, o perché c’è, ma non a condizioni tali da poter consentire a chi lo esercita indipendenza e condizioni di vita dignitose. Spesso è proprio la perdita del lavoro (oltre alle separazioni familiari, alla dipendenza da droghe, alla mancanza di prospettive dopo un periodo di carcerazione) a determinare l’acquisizione dello status di homeless. Testimonianza dell’inappropriatezza e dell’insufficienza delle misure messe in atto finora per affrontare il fenomeno è la “cronicizzazione” che spesso lo determina. Gli italiani senza dimora lo sono mediamente da cinque anni, mentre gli immigrati da due. È chiaro quindi che un atteggiamento assistenziale da solo non può bastare, ma sono necessari interventi volti all’inclusione sociale.
A nostro avviso, si potrebbe aggiungere che su questo tipo di povertà si può fare un lavoro di “prevenzione”, introducendo nuovi e più efficaci ammortizzatori sociali per chi perde il lavoro, affrontando in maniera diversa la dipendenza da droghe e favorendo percorsi di riabilitazione, e infine rivedendo completamente la gestione delle pene detentive, che devono consentire a chi finisce di scontare una pena di non vedersi rifiutato dalla società nella quale sta cercando di rientrare. Siamo finiti su tre temi fondamentali di cui si parla da tempo e che, come vedete, hanno ricadute e conseguenze a cui spesso facciamo fatica a ricollegarli.