parlamentoQuanto sarebbe utile (e giusto) che lavorassero i nostri parlamentari? Forse non tutti sanno che, dalla notte dei tempi della storia repubblicana, le due aule del nostro ordinamento sono aperte dal martedì al giovedì. Un sistema che prevede per i nostri rappresentanti la settimana corta, anzi, cortissima. In realtà, i lavori al martedì cominciano al pomeriggio, mentre al giovedì finiscono dopo pranzo, quindi siamo ben al di sotto dei tre giorni effettivi di lavoro a settimana. A occhio e croce, sapendo anche gli sgravi e i compensi di cui godono deputati e senatori, viene da dire che è un po’ poco. Va precisato che l’attività politica non è solo quella che si svolge dentro le aule: ci sono le direzioni di partito, nonché le cosiddette attività “sul territorio”, che rientrano nel mandato istituzionale pur non essendo ore di lavoro contabilizzate.

Una repubblica che si definisce parlamentare, forse dovrebbe chiedere ai propri rappresentanti un maggiore sforzo di presenza all’interno delle aule. Ci sono leggi che attendono di essere discusse e votate, sulle quali non si trova mai il tempo, perché le agende di Camera e Senato già scoppiano di impegni. È possibile che aumentando le “pagine” di queste agende si possa smaltire una parte di quei lavori che proprio non si riescono a programmare. Il senatore leghista Jonny Crosio è l’ultimo, in ordine di tempo, ad aver fatto una proposta per ampliare gli orari di apertura delle camere, proponendo, se proprio non si vogliono aggiungere uno o due giorni di lavoro, di sfruttare appieno almeno quelli già previsti, cominciando martedì alle 9 e terminando giovedì alle 20. In questo modo nessuno potrebbe lamentarsi di avere meno tempo per “il territorio” o altre faccende urgenti, perché i giorni di lavoro restano gli stessi. La proposta, seppure ragionevole, non ha avuto effetto.

È lunga la lista di coloro che hanno provato a intaccare il sacro vincolo della settimana cortissima, ma la loro è una storia di sconfitte. Negli ultimi anni ci hanno provato vari presidenti di Camera e Senato, Luciano Violante, Gianfranco Fini, Fausto Bertinotti, Pietro Grasso. Il primo dei quattro sembrava esserci riuscito, scrive Mattia Feltri su La Stampa del 16 settembre: «Allungò la settimana ma soprattutto accorciò il mese: lavorate cinque giorni anziché tre e poi vi lascio l’ultima settimana del mese così vi curate il vostro bel territorio, disse. Cambiò pure il regolamento – e si scrissero articoli sulla novità – ma poi devono averlo ricambiato perché non se ne è saputo più nulla». La faccenda è molto più antica, comunque, ed evidentemente in tanti anni di storia repubblicana le generazioni di politici che si sono susseguite non hanno mai avuto dubbi in merito alla bontà del sistema “trino”. La fissità di questo è anche lo specchio di una deriva già evidente da diversi anni, ossia il progressivo “svuotamento” della funzione legislativa del parlamento a favore del governo, che con i decreti costringe spesso il primo a una semplice attività di ratifica. «Sono anni che diciamo che la Repubblica parlamentare non va più bene – spiega in un’intervista il responsabile editoriale di Openpolis, Vincenzo Smaldore –, perché tutti i poteri e l’attività legislativa sono in capo al governo, ma in mancanza di una revisione costituzionale siamo andati incontro a questi problemi. A tutto ciò va aggiunto un altro punto: da qualche anno, da Monti a Letta fino a Renzi, non c’è una maggioranza parlamentare chiara che sostenga il governo quindi la sua attività è ulteriormente ostacolata dal problema di trovare numeri in Parlamento».

La realtà, amara, sta forse nelle parole del direttore della Gazzetta di Parma, Giuliano Molossi, che rispondendo alla lettera di una lettrice scrive: «La verità, cara signora, è che molti parlamentari hanno altre attività molto redditizie alle quali non possono e non vogliono assolutamente rinunciare. Non vogliono tornare in fretta a casa per tagliare il prato del giardino di casa o per lavare la macchina o per accompagnare la moglie a fare shopping. Vogliono tornare nei loro studi di avvocati, commercialisti, notai, o nelle loro aziende». Curare il territorio, appunto: il loro.