A ottobre dello scorso anno il ministro Elsa Fornero ebbe una di quelle uscite che finiscono per attaccarsi all’immagine dei politici come un’etichetta, per non lasciarli mai più. Sostenne infatti che i giovani italiani non dovrebbero essere così choosy (traducibile come schizzinosi), rifiutando alcuni posti di lavoro ritenuti troppo faticosi o poco qualificanti. Fu un errore, e la stessa Fornero ebbe a rammaricarsi di come la sua battuta sia stata ingigantita poi dalla stampa, fino a diventare un’accusa verso i giovani disoccupati, colpevoli di non sforzarsi abbastanza di trovare un lavoro. Una lezione di politica alla professoressa, che si è trovata per le mani il ribaltamento del detto latino secondo cui verba volant: che non vuol dire assolutamente che l’oralità causa oblio, bensì che essa fa “prendere il volo” al messaggio, gonfiandolo e distorcendolo fino a farne qualcosa di diverso. Piccola digressione di sociologia dei media, ma torniamo all’attualità.
Quell’uscita si inserisce in un’operazione, tuttora in atto, di costruzione nel disoccupato del senso di colpa verso la propria condizione. È di qualche giorno fa l’articolo del Corriere che annuncia la disponibilità di 6mila posti di lavoro come pizzaiolo, sparsi in tutta Italia. Pare insomma che ci sia un “buco” di forza lavoro che non si riesce a riempire. E ancora, si dà nuova linfa a un’altra retorica, secondo cui gli stranieri residenti in Italia sarebbero più lesti ad adeguarsi reinventandosi di volta in volta una nuova professionalità: giù la testa, grande umiltà e voglia di lavorare. Qualità che mancherebbero ai nostri “bamboccioni”. Peccato che questa notizia ricordi molto da vicino quella di due anni fa (l’accostamento si deve al blog La Privata Repubblica), in cui si annunciava la disponibilità di 2mila posti vacanti per giovani apprendisti panettieri. Più che altro, allora si cercavano altrettanti disperati disposti a pagare centinaia di euro (rateizzabili, per carità) per un corso di avviamento alla professione, al termine del quale non vi era alcuna promessa di accesso a un lavoro. Un tempo, per imparare un mestiere, si stava a contatto con un professionista, si lavorava con lui, si apprendevano le tecniche e intanto si guadagnavano due soldi, magari pochi all’inizio. Oggi siamo più legati alla dinamica del corso di formazione. Ma un conto è offrire un percorso formativo qualificato, rivolto a persone motivate ad accedere a una professione. Ben più subdolo è avvicinare nuovi candidati facendo leva sulla disperazione, salvo poi sfruttarli.
In questo percorso di costruzione di una figura distorta del disoccupato, non si tiene poi conto di come, paradossalmente, essere in tale condizione equivalga praticamente a un lavoro. Ore di ricerche su internet, curricula e lettere di motivazione da modificare e inviare alle aziende, interminabili attese che arrivi una telefonata o una mail, viaggi su e giù per l’Italia inseguendo un colloquio, e poi la disponibilità, che deve essere totale e continua. Il giovane (o meno giovane) in cerca di lavoro è schiacciato dalle forze del mercato, che egli non può che accettare, perché sono troppo grandi per essere affrontate e cambiate, soprattutto da chi è lasciato solo in questa lotta impari. Fargli attorno terra bruciata additandolo come pigro e viziato non fa altro che mortificare ulteriormente una condizione già difficile, oltre a venire meno al dovere di ogni testata giornalistica, che dovrebbe essere di informare.