Nei giorni scorsi si è aperto (come periodicamente accade) il dibattito sulle carenze nell’uso dell’italiano da parte degli studenti universitari. Tra i vari contributi alla discussione, riportiamo uno stralcio di un articolo di Francesco Rocchi, uscito sul blog Le parole e le cose, che pone una domanda fondamentale: la scuola italiana insegna a scrivere?
[…] A mio avviso, molto poco.
Nella mia esperienza i temi da svolgere sono tre per quadrimestre, quindi sei in un anno. E si tratta pressoché delle uniche situazioni in cui uno studente si trovi a scrivere, in tempo limitato e con severe restrizioni alle fonti, un testo argomentativo. In generale gli studenti prendono note, appunti, schemi, riassumono e ricopiano, ma al di fuori del compito in classe raramente argomentano.
Del risultato di questa lamentevole situazione si accorgono bene non tanto i docenti, quanto i correlatori di laurea, che nel leggere le tesi dei loro studenti – è notorio – si devono spesso mettere le mani nei capelli.
Uscirne si può. Sarebbe forse utile che “composizione” diventasse una materia a sé stante, ma anche senza impelagarsi in proposte di riforma divaganti, io credo che si possa cominciare utilmente a rivedere certe abitudini ormai superate.
Un serio limite del compito in classe è nel fatto che uno studente, durante un compito, deve essere isolato da qualsiasi fonte di informazioni, esclusa quella che il professore o il ministero benignamente gli forniscono a mo’ di nutrimento intellettuale d’emergenza, sufficiente appena per il tempo del compito.
Come al solito, questa idiosincrasia per le fonti esterne ha delle ragioni reali e ben fondate, ma non dobbiamo esserne schiavi. La diffidenza dei professori, che è diventata parossistica dacché sono stati inventati i cellulari e ancor più da quando internet è diventata portatile, nasce dal timore, non infondato, che gli studenti si facciano dettare il compito da qualcuno di fuori. È lo stesso timore che impone che gli argomenti delle tracce siano custoditi gelosamente fino al momento del compito. Un tempo i plichi sigillati con le tracce di maturità erano consegnati alle scuole dai carabinieri; oggi c’è una procedura telematica che ricorda quella dell’attivazione delle testate nucleari, ma il principio è lo stesso.
Tutto questo si può superare senza far venir meno la validità del lavoro svolto dagli studenti. Non è nemmeno difficile. Semplicemente, è sufficiente che con gli studenti si decidano insieme le aree tematiche sulle quali potranno vertere le tracce. Chiedere agli studenti di indicarle loro stessi significa dare loro una chance in più di poter scrivere un tema in cui abbiano una reale, sia pure ingenua e parziale, cognizione di causa. In ogni caso qualcosa di più delle astratte vaghezze cui uno studente deve ricorrere quando scrive temi stans pede in uno.
L’affidabilità del compito in classe non ne sarebbe compromessa. Una volta capiti quali sono gli interessi dei ragazzi e cosa potrebbe stimolarne una reazione intellettuale, l’insegnante dovrebbe cercare un articolo, un testo o un documento di altra natura in quelle aree tematiche e chiedere ai ragazzi di commentarlo – questo sì da non rivelare prima. L’essersi preparati a casa, essersi anche portati dei materiali o il fatto di consultare il cellulare nell’atto di costruire un commento non toglie nulla al lavoro che rimane necessario fare per organizzare il testo, studiarne i raccordi, illustrare ed esemplificare i passaggi più importanti.
In questo senso, il lavoro diventa qualcosa di molto più stimolante. Viene meno l’angoscia del non sapere che dire: se il lavoro “informativo” preliminare è stato ben svolto a casa, è impossibile rimanere con quella sensazione di vuoto che molti studenti conoscono.
Più importante, le idee da esprimere vanno sì in parte trovate al momento (in quanto stimolate dal documento offerto), ma sortiscono d’un retroterra più elaborato e meglio posseduto, in conseguenza del lavoro preliminare svolto con calma.
Con un compito del genere non ci si limita a scrivere. Questo è un compito di italiano con cui si impara, perché nel documentarsi si fa ricorso a dati e cognizioni nuove. Il che peraltro vuol dire che il compito di italiano può diventare disinvoltamente interdisciplinare oppure che se ne può trasferire il modello ad altre materie.
D’altra parte, è dimostrato che i test e gli esami sono momenti particolarmente efficaci per l’apprendimento. Le informazioni che maneggiamo durante un test ci rimangono in testa in maniera particolarmente radicata. Lo dimostrano alcuni esperimenti scientifici, ma anche l’esperienza di ciascuno di noi lo può confermare facilmente: possono essere passati decenni, ma tutti si ricordano ancora le domande dell’esame di maturità, o quelle di un esame universitario.
In letteratura si chiama “testing effect” ed è un’ottima chiave per migliorare la didattica, perché vuole dire che il lavoro del compito di italiano, invece di essere una meteora che prende due o tre ore e poi scompare, può diventare il perno del lavoro di classe, ed estendersi dalle tracce di attualità anche alla letteratura e ad altre materie, anche e soprattutto in chiave interdisciplinare.
Lo studio che si fa a scuola, specialmente nelle materie umanistiche, tende infatti ad essere accumulativo, ma in maniera ingenua. Si studiano più argomenti aggiungendone di nuovi man mano che si procede, senza una reale soluzione di continuità, senza un inizio ed una fine che non siano partizioni burocratiche, con una grande difficoltà a tenere tutto sotto controllo: le interrogazioni vertono sempre sull’ultimo argomento e una qualche forma di “ripetizione”, ma è improponibile chiedere agli studenti di andare ad un interrogazione preparandosi su “tutto il programma”. Alcuni professori ci provano, ma agli studenti basta fare corpo morto per ottenere sostanziosi sconti, e tutto sommato non hanno nemmeno tutti i torti: “tutto il programma” è davvero troppo già dopo pochi mesi di scuola.
Se lo studio diventa finalizzato ad un compito strutturato così come ho proposto, e cadenzato in maniera sensata, la faccenda diventa abbastanza diversa.
Continua a leggere su Le parole e le cose
Fonte foto: flickr