Per raggiungere la top performance in ambito professionale non servono alti livelli di stress, bensì un ambiente di lavoro che permetta alla persona di dare il massimo senza sforzo. È la tesi proposta nel libro The Leading Brain: Powerful Science-Based Strategies for Achieving Peak Performance. L’idea degli autori, i neuroscienziati Friederike Fabritius e Hans Hagemann, è di coniugare le più solide teorie scientifiche con un approccio imprenditoriale, con l’obiettivo di stabilire quali sono gli elementi che determinano con maggiore probabilità il fatto che una persona dia il suo meglio in ambito lavorativo, senza per questo soffrire stress inutili. Come spiegato dagli autori in una puntata del podcast Knowledge dell’Università della Pennsylvania, bisogna superare l’immagine stereotipata del top performer che va a letto tardissimo e si sveglia prima dell’alba.

L’idea eroica del lavoratore, per quanto spinta da certe aziende e inconsciamente sposata da alcuni lavoratori, non è quella vincente e alla lunga non è sostenibile. In generale non c’è una modalità di lavoro universale, buona per chiunque. Alcune caratteristiche sono determinate geneticamente, sostengono gli autori, quindi bisogna creare intorno al lavoratore un ambiente che lo spinga a dare il massimo senza fare sforzo, facendolo entrare nello stato di flow. L’abilità del datore di lavoro sarà quella di combinare persone con caratteristiche diverse, ciascuna con i propri punti deboli e punti di forza, in modo che collaborino con ruoli e funzioni ben definite, in accordo con le proprie caratteristiche.

Un’altra idea da spazzare via è quella del multitasking. Se è vero che siamo tecnicamente in grado di fare più cose contemporaneamente (per esempio guidare e ascoltare la radio, camminare e parlare), questo non vale nel caso di attività che necessitino del pieno delle nostre risorse cognitive. Scrivere una mail mentre si ascolta la radio, per esempio, non è possibile. C’è chi, spiegano gli autori, è in grado di agire come se stesse facendo due cose contemporaneamente. In realtà sta passando continuamente dall’una all’altra attività nello spazio di millisecondi, con il risultato di fare maggiore fatica per un risultato di peggior livello, e perdendo più tempo.

Un aspetto da considerare per raggiungere la peak performance è la regolazione delle emozioni negative. Cercare di inibire emozioni come rabbia, frustrazione e disappunto sul luogo di lavoro mette in competizione il sistema razionale con quello emotivo. Quando il nostro cervello è troppo impegnato a mettere a tacere la negatività, spreca risorse preziose necessarie a dare il massimo in altre attività. Piuttosto che negare questi sentimenti, meglio riconoscerli, accoglierli e chiamarli col loro nome.

Un’altra questione che fa la differenza da persona a persona (e che sembrerebbe essere influenzata da fattori oggettivi quali il genere e l’età) è il livello di “eccitazione” di cui si ha bisogno per entrare in azione. Ci sono persone che si attivano al minimo stimolo. Altre hanno bisogno di un maggiore livello di stimolazione prima di entrare nella condizione di dare il massimo. Si può immaginare un asse che va dal sonno profondo (stato di attivazione nulla) al panico (stato di eccessiva attivazione). Quando la situazione si situa su un punto ideale di questa scala (diverso per ognuno), allora si crea una delle condizioni necessarie alla peak performance. Come si diceva, sembra che per questioni ormonali gli uomini abbiano bisogno di una situazione di maggiore stress (come l’avvicinarsi di una scadenza) per attivarsi, e che le donne lavorino meglio con una pianificazione più dilatata. È sempre molto rischioso e controverso tracciare una linea comportamentale basata sul genere: immaginiamo che gli autori intendano dire che tra i vari fattori che concorrono a determinare le condizioni di attivazione c’è anche la questione del genere, non certo che si possa ridurre il discorso a questo aspetto.

Altra considerazione: le ricompense funzionano più delle minacce. In ogni organizzazione si stabilisce un equilibrio tra questi due elementi, che stimolano reazioni opposte nel nostro organismo. «Quando c’è una minaccia – ha spiegato Hagemann – parte una scarica di cortisolo nel flusso sanguigno. Questo rafforza la muscolatura, ma può abbassare le capacità cognitive se tale scarica è troppo forte. Creare invece un clima di apprezzamento, dove le persone si sentono bene e lavorano bene, è sempre la cosa migliore da fare».

(Immagine da flickr)